ROMA Governo e sindacati ai ferri corti. Al centro della polemica il rinnovo del contratto degli statali scaduto nel lontano 2009 e mai più rinnovato fino alla sentenza della Corte Costituzionale che, il 24 giugno scorso 2015, ha dichiarato l’illegittimità del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico. Una decisione che ha costretto Palazzo Chigi a stanziare 300 milioni nella legge di Stabilità per far ripartire i salari. Nel corso degli incontri con le parti sociali, ripresi questa settimana, il governo ha fatto sapere alle parti sociali che il negoziato economico si aprirà solo al termine dell’iter legislativo che riguarda la riforma Madia della Pubblica amministrazione. Una scelta che rischia di far slittare i tempi alla fine dell’estate considerato che, dopo l’approvazione dei primi 11 decreti attuativi a inizio anno, l’esecutivo deve emanarne ancora 7. I sindacati, secondo i quali lo stop ai contratti che dura dai 6 anni è costato 3mila euro a ciascuno lavoratore, temono che il rinnovo finisca per partire nel 2017 e non quest’anno come ordinato dai giudici della Consulta. Peraltro, fonti del Tesoro continuano a ribadire che non c’è alcun margine per allargare i cordoni della borsa concedendo ai 3,4 milioni di dipendenti pubblici un extra-stanziamento rispetto a quanto già fissato con la manovra. «L’inflazione è bassissima e non c’è ragione per concedere rinnovi contrattuali elevati tanto più che gli statali, a differenza dei lavoratori privati, non hanno pagato la crisi con i licenziamenti» spiega un tecnico vicino al ministro Padoan. Questa strategia del risparmio fa ovviamente storcere il naso ai sindacati che hanno calcolato un aumento medio pro-capite di appena 10 euro. Più nel dettaglio, un dipendente pubblico con uno stipendio di 1.500 euro netti avrà diritto a un aumento di 9 euro nel 2015 ai quali si aggiungeranno 17 euro nel 2016, 20 euro nel 2017 e 23 euro nel 2018. Meno di 70 euro in tre anni, ai quali si deve sottrarre l’indennità di vacanza contrattuale attualmente percepita, pari allo 0,75 per cento dello stipendio tabellare minimo (il 50% del tasso di inflazione programmata per il 2010). Paradossale, poi, la situazione dei lavoratori che si trovano in una fascia compresa tra 24 e 26mila euro lordi l’anno, per i quali buona parte dell’aumento contrattuale sarà neutralizzato dalla contemporanea riduzione del bonus di 80 euro concesso dal governo Renzi a partire dall’anno scorso. Altro problema che divide le parti la riforma della Pa in fase di realizzazione che, secondo i sindacati, dovrebbe essere discussa in maniera separata rispetto al rinnovo dei contratti.