Iscriviti OnLine
 

Pescara, 25/07/2024
Visitatore n. 738.579



Data: 04/04/2016
Testata giornalistica: Il Messaggero
Ama e Atac, ai romani il conto dell’inefficienza. L’azienda dei rifiuti scarica sulle tariffe la crescita incontenibile dei propri costi. L’altra società municipalizzata da anni non riesce a chiudere un bilancio in utile

ROMA C’è un vecchio film, una commedia degli anni Ottanta, che si intitola «Chi più spende più guadagna». È la storia di Monty Brewster, un giocatore di baseball scapestrato di una squadra di seconda categoria. Un giorno uno zio ricco gli lascia un’eredità di 300 milioni di dollari. Ma a una sola condizione: per avere tutto il malloppo ha soli trenta giorni di tempo per spendere 30 milioni di dollari. Alla fine si inventa di tutto per riuscire nell’impresa, affitta persino la squadra dei New York Yankees per giocare una partita. Il risultato è scontato: ma è solo una bella favola.
Sembra paradossale, ma in parte la storia di Monty Brewster somiglia al sistema di finanziamento dell’Ama, la società che a Roma ha il compito di raccogliere i rifiuti e tenere pulite le strade. Quanto spende per farlo è però una variabile indipendente. Alla fine le basta presentare il conto al Comune e il Campidoglio, normalmente senza colpo ferire, lo trasferisce pari pari ai cittadini e alle imprese nella Tari, la tariffa sui rifiuti, che la stessa Ama gestisce e incassa per conto del Comune.
STRADE E CASSONETTI
Tutto deriva da una vecchia norma, che vale per tutte le imprese di rifiuti, che stabilisce che la tariffa deve integralmente coprire i costi sostenuti per la gestione del servizio. Poco male se poi chi raccoglie i rifiuti e pulisce le strade è inefficiente, tanto a pagare sono i cittadini a piè di lista. Un’idea strampalata i cui effetti li ha sintetizzati bene l’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici di Roma Capitale in uno dei suoi pareri sui piani finanziari presentati ogni anno dall’Ama al Campidoglio. Ecco ciò che scrive: «La prassi di fissare sia le prestazioni che le risorse nella stessa sede (nel piano finanziario presentato da Ama), ha consentito all’azienda un incremento dei servizi resi (e pagati dai cittadini) al di fuori di un mandato e di un piano pluriennale di sviluppo del servizio, implicando il raddoppio dei costi in un decennio, senza comportare miglioramenti paragonabili in termini di risultati ambientali e di pulizia della città». Insomma, ogni anno, per avere più soldi, l’Ama aggiungeva qualche servizio nuovo (ma non richiesto) di pulizia. Solo che con quello che adesso pagano, i romani dovrebbero avere strade che brillano e cassonetti sempre vuoti. Ma così non è: chiunque lo può vedere. Di più. Con questo sistema, con il quale l’Ama presenta il conto dei suoi costi per raccogliere e smaltire i rifiuti e i cittadini lo pagano, dal 2003 al 2013 la tariffa domestica è balzata del 43%, quella non domestica, pagata dalle imprese, del 72% (i dati sono sempre della stessa Agenzia per il controllo dei servizi pubblici locali). Non è che dopo il 2013 sia cambiato molto. Per quell’anno l’Ama aveva dichiarato costi per 744,4 milioni, scaricando in bolletta 719 milioni. Un anno dopo, nel 2014, i costi sono saliti a 787 milioni, con 773 milioni recuperati in tariffa. Nel 2015 altro scatto a 793 milioni totali con 776 milioni in tariffa. L’ultimo piano finanziario approvato dal prefetto Francesco Tronca prevede costi per 798 milioni, 777 dei quali scaricati nelle tariffe dei romani.
Negli anni, insomma, la tariffa è stata una specie di droga nella quale sono state scaricate tutte le inefficienze. Con qualche effetto collaterale. Nonostante l’impennata dei rimborsi, Ama ha accumulato nei suoi conti un debito di 1,2 miliardi di euro. Anche questo probabilmente un effetto perverso del meccanismo di finanziamento della raccolta rifiuti. Ecco il meccanismo: Ama si fa anticipare dalle banche i soldi offrendo in garanzia i crediti maturati nei confronti del Comune per la riscossione della Tari; in tal mondo, avendo sempre soldi disponibili in cassa è poi poco incentivata a procedere al recupero della tassa presso i cittadini. Così il tasso di evasione resta elevato, tanto che nel bilancio della società sono accantonati fondi per la svalutazione-crediti verso i cittadini per la Tari non saldata per oltre 160 milioni di euro.
GIRANDOLA DI IMMOBILI
Se i problemi di Ama sono soprattutto legati al meccanismo perverso di finanziamento del servizio (che non a caso il governo ha deciso di cambiare con la riforma dei servizi pubblici locali affidando le tariffe all’Authority dell’energia), l’altra grande municipalizzata romana, l’Atac, non è messa molto meglio. Per anni la società - della quale ieri il Messaggero ha dato nuovamente conto in relazione agli sprechi sul fronte delle consulenze, severamente eccepite dall’Anac guidata da Cantone - ha danzato sul filo del fallimento. Per salvarla il Campidoglio ha dovuto inventare ogni volta operazioni spericolate, come hanno certificato gli ispettori della Ragioneria nel dossier sui conti del Comune. Cose da perderci la testa.
Come ad esempio la girandola degli immobili di proprietà. Prima conferiti in una società controllata dalla stessa Atac insieme a un maxi finanziamento di Cdp; poi girati al Comune, sempre insieme al debito; infine il Comune, siccome Atac era in profondo rosso, glieli ha restituiti per ricapitalizzarla tenendo però il debito. Il punto è che la società non riesce a chiudere un esercizio in utile da anni. Mediobanca ha calcolato che in 8 anni, fino al 2013, le perdite cumulate hanno raggiunto 1,23 miliardi di euro. Nei due anni successivi le cose non sono andate meglio. Nel 2014 la società ha perso altri 141 milioni e il 2015 è previsto in rosso.
I debiti accesi con le banche sono serviti a pagare gli stipendi, perché per anni la società non è riuscita ad investire. Il risultato è che la flotta di mezzi è vecchia e la percentuale di autobus che si ferma ogni giorno è elevata. La rete metropolitana non sta meglio. L’ex amministratore delegato Danilo Broggi, che pure si è dato da fare per migliorare la situazione, in una lettera aveva ricordato al Campidoglio che la vita utile dell’armamentario ferroviario è di 40 anni e quello della metro A è prossimo ai 35 anni.
L’ESEMPIO DI LONDRA
Sicché lo scorso anno il Comune ha messo l’ennesima pezza con una ricapitalizzazione da 200 milioni e la firma di un nuovo contratto di servizio da 551 milioni l’anno. Per la società di trasporti è probabilmente l’ultima chiamata. Nel 2019 scade l’affidamento in house del servizio di trasporto pubblico locale, così Atac dovrà giocarsi la partita del riaffidamento in concorrenza con altri. Avrà qualche chance solo se riuscirà a ridurre il suo costo-chilometro, ossia quanto spende per ogni mille metri percorsi da un suo bus. Nell’ultimo bilancio disponibile, quello del 2014, questo valore è di 5,71 euro. Con il nuovo contratto, basato sui costi standard, dovrebbe scendere a 5,2 euro. Roma Tpl, la società che gestisce alcune linee periferiche della capitale, spende 4,54 euro per chilometro. Nel Regno Unito, in media, alle società di trasporto percorrere un chilometro costa 2,4 euro. Ma senza attraversare la Manica, per capire quanto può essere migliorata la gestione dell’Atac basti studiare il confronto con la milanese Atm proposto da Mediobanca e del quale offriamo una sintesi in pagina: lo schema relativo agli eccessi nei costi di produzione dell’Atac è sin troppo eloquente.

www.filtabruzzo.it ~ cgil@filtabruzzo.it