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Pescara, 25/07/2024
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Data: 11/05/2016
Testata giornalistica: Il Messaggero
Il sindaco 5Stelle e le 30 assunzioni la parabola pentastellata di Livorno

LIVORNO Le facce sono le stesse del 9 giugno di due anni fa. Allora grondavano sudore e gioia sotto il Palazzo Municipale appena espugnato: «E’ finita la pacchia» urlavano i militanti grillini dopo la vittoria più inattesa della storia. Avevano sconfitto i rossi nella città rossa per antonomasia, la città dove il Partito Comunista era nato e aveva governato per settant’anni. Ora quelle stesse facce si aggirano sconsolate con l’aria cupa di chi ha visto infrangersi il sogno.
«Se si andasse a votare oggi non arriveremo al 3 per cento» prevede Maurizio Serraggi, uno che nel curriculum ha tutto ciò che deve avere un grillino doc, i meet-up, i gruppi di lavoro, gli attacchinaggi notturni, la religione del web. Fabio Bolognesi, altro attivista della prima ora, è perfino spietato: «Ormai in giro per Livorno non c’è più nessuno disposto a dire che stiamo governando bene». Cosa vi rimproverano? «Di non aver fatto nulla. E hanno ragione».
Il sindaco Filippo Nogarin – l’ingegnere a cui era affidato il compito di dimostrare al mondo che i grillini ci sanno fare - è sotto inchiesta. Bancarotta fraudolenta, stando ai pm; ieri per mezza giornata è circolata la voce, poi smentita, che i reati fossero di più. Ha fatto assumere 30 persone da una municipalizzata in un momento in cui la società era esposta per 42 milioni e, quindi, non avrebbe potuto spendere neanche un centesimo. Dimissioni? Macché. Spiegazioni? «Ho da mandare avanti una città, non ho tempo per le chiacchiere» taglia corto lui.
Sarebbe fuorviante, però, pensare che il «modello Livorno» sia in crisi per colpa dei magistrati. L’avviso di garanzia a Nogarin e i grotteschi distinguo dei suoi referenti romani («Non tutte le accuse hanno lo stesso peso») hanno semplicemente fatto precipitare una situazione già ampiamente disastrata visto che l’indice di popolarità del sindaco e della sua maggioranza era sotto i tacchi da tempo. L’inchiesta dei pm non ha fatto altro che togliere il tappo ai malumori.
Serena Mancini da Rosignano, una che conta assai nel Movimento livornese, è feroce: «Nogarin? Ha bussato agli altri partiti che non lo hanno voluto, e noi lo abbiamo preso. Ditemi dove sta la differenza fra lui e il Pd. Anzi, il Pd avrebbe gestito meglio certe scelte». Si può dire qualcosa di peggio a un grillino? Però attenzione: addossare tutte le colpe al sindaco è un modo per nascondere che a Livorno è stato il modello politico dei Cinquestelle a mostrare tutti i suoi limiti strutturali.
Nogarin ha vinto le comunarie grazie alla bellezza di 61 voti via web, ed è diventato Il Candidato. Facile adesso puntare il dito contro la sua inadeguatezza, le manie accentratrici, la tendenza a circondarsi di mediocri (tutte valutazioni raccolte fra i grillini). Più difficile ammettere, come ammette Lucia («il cognome no, sennò espellono pure me»), che se bastano 61 voti per essere prescelti allora anche il primo cane che passa può aspirare alla fascia tricolore di una grande città.
ORTODOSSIA

Alessio Batini, capogruppo M5S in Comune, è un custode dell’ortodossia grillina: «Subito dopo le elezioni ci sembrava tutto facile. Poi ti accorgi che governare è una cosa molto più complicata. Ma noi ce la faremo». Ottimismo a parte, la sua confessione sulle difficoltà del governare è un’altra mazzata ai totem propagandistici di chi ha fatto credere che tutti possono fare tutto, che la competenza è un optional, conta solo l’onestà. Almeno fino a quando un pm non bussa.
Probabilmente sembrava tutto facile anche a Nogarin. Lui pure fedele alla religione grillina della partecipazione diretta, della diffidenza verso «chi non è dei nostri». E di conseguenza «costretto» (si fa per dire) a mettere amici «fidati» nei posti chiave, ad annunciare l’assunzione di un nuovo manager (un attivista del M5S) come «il nostro Steve Jobs» salvo poi licenziarlo dopo qualche mese per manifesta incapacità, a subire inerme la burocrazia amministrativa, a ricorrere alla selvaggia pratica delle espulsioni fino a trovarsi con una maggioranza appesa a un solo voto, a maltrattare i militanti che – proprio in quanto militanti – pretendono di avere udienza per illustrare i loro progetti fantasmagorici per la città, ad aumentare le tasse «perché i soldi non ci sono», a non fare nulla delle cose promesse: né il blocco dell’inceneritore, né la raccolta differenziata porta a porta, né gli autobus gratis o gli accessi liberi al mare. Niente.
Fino a fare cadere le braccia anche agli attivisti più generosi e pacati come Lucia Grassi, il cui disincanto pare un testamento: «Il nostro problema? Aver vinto le elezioni, purtroppo. Non eravamo preparati». E lo sarete mai? «Non mi interessa, al prossimo giro mi chiamo fuori».

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