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Pescara, 25/07/2024
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Data: 30/06/2016
Testata giornalistica: Il Centro
Crisi in azienda ? C’è Lolli l’uomo degli 89 tavoli. Il vice della Regione gestisce decine di trattative: «Conta esserci e dire la verità. Non puoi lasciare solo chi perde il lavoro, siamo nel cuore della disperazione»

Eccolo qua l’uomo della crisi: da quando si è insediato alla vice-presidenza della Regione, due anni fa, Giovanni Lolli non se n’è persa una di ristrutturazione aziendale. Appena un’impresa lancia l’sos esuberi, eccolo arrivare al tavolo della trattativa per cercare di trovare un punto di incontro e, soprattutto, evitare lo spettro dei licenziamenti. «Ho fatto una scelta fin dall’inizio, seguire tutto in prima persona, dai tavoli locali a quelli romani: qualche giorno fa ho fatto il conto e sono a quota 89». Come ci si muove in situazioni come queste? «Partiamo da un presupposto: siamo nel cuore della disperazione. In Abruzzo molto spesso moglie e marito lavorano nella stessa azienda e se questa chiude c’è il rischio di ritrovare famiglie intere sul lastrico. C’è una terribile solitudine in momenti come questi: c’è il sindacato, soprattutto il territoriale, spesso c’è Confindustria, il sindaco (ma non sempre), un paio di deputati, qualche consigliere regionale». E lei che cosa fa? «E’ molto importante esserci e dire la verità. La gente non pretende soluzioni, pretende impegno. E non è aggressiva come si vede in televisione, lo diventa solo se l’abbandoni e io questo non l’ho mai fatto». Qual’è stato la più dura delle 89 crisi? «Forse la Thales, per la durata della vertenza e per la difficoltà. Ma anche la Brioni è stata difficile. O la Veco di Martinsicuro o la trattativa per il polo elettronico aquilano». E’ più semplice trattare con le aziende in cui è presente l’imprenditore o con i dirigenti che rappresentano una multinazionale? «In generale è più facile con l’imprenditore, che fa di tutto per evitare il peggio e soffre per i problemi che si sono creati. Quanto alle multinazionali, sono di due tipi: molte sono ormai in mano al capitale finanziario, che ragiona solo in base al cash flow immediato e non a un progetto industriale di medio o lungo termine». In questo caso si fa dura... «Facciamo un esempio: se io penso di trasferire all’estero una produzione, come sta facendo la Vesuvius, so che nel breve il mio bilancio ne avrà un beneficio. Ma ormai è dimostrato che a lungo andare gli svantaggi sono più dei vantaggi, a cominciare dalla lontananza dal cliente e dalla qualità delle produzioni, che non sempre è al top. Ma se la mia prospettiva arriva solo a fine anno, sarò molto meno preoccupato da tutto questo». Ha qualcosa di rimproverarsi di questi due anni spesi al capezzale delle imprese in difficoltà? «Beh, errori ne ho fatti e ho anche fatto autocritica». Fuori i nomi. «Prendiamo il caso della LFoundry di Avezzano: quando gli americani della Micron decisero di andarsene, io fui tra coloro che valutarono sbagliata e rischiosa la scelta del management di rilevare l’azienda con un “buy out”, un acquisto dall’interno. L’unico a crederci fu il sottosegretario Claudio De Vincenti. Ma anche in quel caso sono state le persone a fare le differenze: Sergio Galbiati e la sua squadra hanno saputo rifondare quell’impresa e rilanciarla sui mercati mondiali, al punto che oggi un grande gruppo cinese l’ha rilevata. Ma sa qual è la cosa buffa?». Quale? «Che chi allora criticava quella scelta, oggi attacca la decisione di vendere ai cinesi. Io non sono tra questi e la giudico una buona operazione, anche perché gli acquirenti si sono impegnati a investire in ricerca e ad avviare qui nuove produzioni». Altri crucci? «Beh, c’è una situazione sulla quale non siamo riusciti ad incidere come avremmo voluto ed è la crisi della Val Sinello. In questo momento è la zona più problematica d’Abruzzo, con la crisi della Golden Lady di Gissi a cui si aggiunge quella del Pantalonificio Canali. Forse siamo arrivati troppo tardi. E il problema è che, oltre a non riuscire a salvare le imprese esistenti, non si riesce neppure a lanciarne di nuove: abbiamo messo a disposizione dei fondi con questo scopo, ma si è fatto avanti un solo operatore, che poi ha rinunciato». Il sindacato potrebbe fare di più? «E’ un fattore di equilibrio, fatto da gente che cerca di salvare i posti di lavoro facendo accordi. Il sindacato ideologico di cui parla qualcuno sta in televisione: qui c’è gente che si sobbarca vicende durissime. Prenda il caso della Brioni: c’è chi è passato da 36 a 19 ore, quasi dimezzando il salario, o chi se n’è andato con un incentivo di 32 mila euro. Un grande sacrificio, ma c’era da scongiurare 500 licenziamenti ed era una scelta da fare». In due anni ne ha incontrati tanti: che giudizio dà dei lavoratori abruzzesi? «Straordinari, gente seria e che non si tira mai indietro. Prenda il caso della Burgo: quando è stato il momento hanno protestato duramente, poi si è fatto un accordo che prevedeva che lavorassero con la stessa retribuzione della cassa integrazione. Non solo, alcuni sono stati trasferiti in altre fabbriche italiane e adesso che le cose vanno meglio non vorrebbero restituirli ad Avezzano, perché sono i migliori». Non sarà un caso isolato? «Macché, posso farle molti altri esempi. Prenda la crisi del call center I Care dell’Aquila, entrato in crisi per il calo di commesse da parte di Vodafone. A un certo punto l’azienda ha portato qui lavoro che prima di faceva a Milano perché in Abruzzo ha trovato zero assenteismo e grande qualità negli addetti, quasi tutti laureati. E lo sa perché il Mercatone Uno non ha chiuso nessuno dei tre punti-vendita in regione? Perché gli addetti nei momenti più bui avevano fatto quadrato per tenere in piedi l’attività, mentre altrove ci sono stati addirittura atti di vandalismo». Tirando le somme, e al netto della crisi, come sta l’industria abruzzese? «Senta, voglio essere sincero: fino a due anni fa il sottoscritto, come la maggior parte degli abruzzesi, ignorava quante e quali formidabili aziende ci siano in questa regione. Anche se scontiamo due difetti di fondo». Quali? «Facciamo poca ricerca e abbiamo un 93% di imprese che occupa meno di dieci dipendenti e che in tempi come questi fatica maledettamente ad accedere al credito. Ma non vorrei essere dipinto solo come l’uomo delle crisi: io visito continuamente fabbriche in salute, cercando di capire come aiutarle per farle andare ancora meglio». Fuori i nomi di qualche fuoriclasse che l’ha colpita... «Potrei dirle Ottorino La Rocca di Valagro, ma forse sarebbe troppo facile. E allora le cito la Aureli di Ortucchio, il primo esportatore italiano di carote, capace di trasformare le carote in contenitori e di alimentare una centrale a biomasse con gli scarti della produzione, parte dei quali servono a concimare i terreni. Gente che pensa in grande, senza fermarsi alle liti di campanile di cui soffre l’Abruzzo. Ma lo sa che i più bei progetti di ricerca sono nati da accordi tra l’università dell’Aquila e aziende della Val di Sangro? Via..».

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