ROMA Dal marzo 2015 , da quando è entrato in vigore il Jobs act, ha assunto circa cinquemila giovani a tempo indeterminato con il contratto a tutele crescenti. «Oramai siamo il maggiore datore di lavoro privato nel vostro Paese» dice Alain Dehaze, ceo di Adecco group, l'azienda leader al mondo nel settore delle risorse umane con oltre 33.000 dipendenti sparsi nelle 5.100 filiali di 60 paesi. Adecco group li assume, gli fornisce una formazione specialistica, paga loro lo stipendio, poi presta questi lavoratori alle aziende (multinazionali come Samsung, ad esempio) che ne hanno bisogno.
I dati Inps dei primi sette mesi di quest'anno segnalano un forte rallentamento nel trend di assunzioni a tempo indeterminato. E in molti ora mettono in dubbio l'efficacia del Jobs act, accusando il governo Renzi di aver eliminato - come chiesto dagli industriali da anni - le tutele dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, senza ottenere i risultati sperati. Possiamo affermare che non era questo il principale problema?
«Le nuove regole del Jobs act sono giuste. Con la crisi in Italia sono stati distrutti 900.000 posti di lavoro, dall'entrata in vigore del Jobs act ne sono stati creati circa 40.000 al mese. C'è stata un'indubbia ripresa dell'occupazione. Ma le regole da sole non bastano. L'occupazione dipende dall'andamento dell'economia, dal miglioramento della competitività. E l'Italia ha due enormi vincoli: la burocrazia e il costo del lavoro troppo alto».
Si riferisce ai salari o al cuneo fiscale e contributivo?
«I salari netti in media non sono particolarmente alti in Italia. Mi riferisco agli extra costi. I contributi, ad esempio, che pesano per il 33%. In Svizzera, tanto per citarle un paese confinante con l'Italia, il totale degli extra costi in busta paga pesa il 16%. E poi, come dicevo prima, resta fortissimo l'impatto negativo della burocrazia. Ma l'Italia ha anche un gap relativo all'educational: non tanto sul livello delle università, quanto sulla mancanza di collegamento con le esigenze delle aziende. Bisogna spingere di più sull'alternanza scuola-lavoro e sull'apprendistato».
E magari anche cercare di non far scappare all'estero i propri talenti.
«Si infatti. Questo è un altro grande problema del mercato del lavoro italiano insieme alla difficoltà di attirare talenti stranieri. Nella classifica Gtci (global talent competiveness index) stilata annualmente da Insead, su 109 Paesi l'Italia è al 41esimo posto. Giusto per dare dei riferimenti: la Spagna è al 36esimo, la Francia al 22esimo. L'Italia è molto indietro anche a livello di brevetti e di startup create da giovani».
L'exploit di assunzioni stabili nel 2015 è chiaramente dovuto anche alla decontribuzione totale sui nuovi contratti a tutele crescenti. Quest'anno, con lo sconto più che dimezzato, è arrivata la frenata, che ci ha portato addirittura sotto i livelli del 2014, quando non c'erano né Jobs act, né sconti contributivi. In un contesto di scarsità di risorse pubbliche, ha senso continuare con gli sconti, visto che non producono più effetti?
«Ha senso ed è necessario. Nei paesi nordici è un sistema consolidato e funziona bene. È ovvio che in Italia, sapendo che nel 2016 le agevolazioni sarebbero state ridotte, chi doveva assumere ha anticipato i programmi alla fine del 2015. Il rallentamento era atteso. È una misura che costa troppo? Sul piatto bisogna mettere il fatto che se queste persone non avessero trovato lavoro, forse avrebbero usufruito di ammortizzatori generando altri costi per la collettività».
Quindi lei consiglia al governo di mantenere le agevolazioni?
«Assolutamente si, è una regola scientificamente dimostrata: lavoratori poco qualificati e giovani laureati senza esperienza, trovano più facilmente un'occupazione se supportati da incentivi. Almeno per queste categorie bisogna prorogare gli sconti».
Il Jobs act disegna un nuovo sistema di politiche attive, con l'Anpal (l'agenzia nazionale) che però ancora non è partita. In questa sua mission in Italia ha incontrato il ministro Poletti. Ci può riferire cosa vi siete detti?
«In sintesi: che bisogna fare presto. A partire dalla piena operatività dell'Anpal».
Quanto è preoccupato dalla crescita del Pil in Italia più bassa del previsto?
«Con un Pil che cresce attorno allo 0,7-0,8% la creazione di posti di lavoro può continuare. L'importante è non perdere la spinta riformista. In questo senso in Italia sarà interessante vedere il risultato del referendum costituzionale».