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Data: 11/10/2016
Testata giornalistica: Il Messaggero
Renzi scuote il Pd: cambiamo l'Italicum La minoranza lo gela: non basta. Il leader: vogliono la scissione hanno pronto anche il simbolo. Bersani frena i suoi: devono cacciarci. Ma SI già al lavoro sulla federazione

ROMA Le aperture di Matteo Renzi, la disponibilità a rimettere mano «in tempi certi» alla legge elettorale non bastano a ricomporre la spaccatura interna al Pd. La minoranza, che aveva preannunciato il No al referendum del prossimo 4 dicembre, punta i piedi, anche se qualche timido segnale di ripensamento filtra dal gelo che accoglie la relazione del segretario alla Direzione nazionale di ieri. L'ultima spiaggia, l'ultima possibilità, secondo molti, di non arrivare al voto rissosi e divisi.
Renzi si è detto pronto ad affidare ad una delegazione, in cui sia rappresentata anche la minoranza, il compito di andare «a vedere le carte» degli altri partiti, «compreso il M5S». Sarà formata dal vice segretario Lorenzo Guerini, dai capigruppo di Camera e Senato, Ettore Rosato e Luigi Zanda e dal presidente Matteo Orfini. Il segretario rimette in discussione il ballottaggio che pure considera «una grande conquista».
In giacca e cravatta e non in camicia come quando parla in sedi non istituzionali, si scompone solo quando respinge le accuse di aver architettato con questa riforma «una deriva autoritaria». «Allucinazioni», le definisce, «ditemi in quale articolo è scritto.... Se qualcuno immagina di usare la legge elettorale come un alibi si sbaglia».
Il tentativo di mediare si esplicita nella proposta di trovare un'intesa sulle modifiche da apportare all'Italicum per poi andare in commissione Affari costituzionali con un disegno di legge condiviso dagli altri partiti. L'impegno «è iscriverlo in discussione nelle due settimane successive al referendum, e comunque «entro la fine dell'anno».
Ed è questo, dunque, la data, il riferimento temporale incerto, il punto che più scontenta la minoranza. Il sospetto che le buone intenzioni del premier restino tali e l'Italicum già votato dal Parlamento resti così com'è, con tutti i rischi che secondo la sinistra questo comporta. Renzi mette sul piatto altre fiches. Si dice disposto a rivedere gli altri due punti qualificanti della legge: il premio alla coalizione e non alla lista «venendo meno alla nostra vocazione maggioritaria», aggiunge che il Pd farà propria la proposta Chiti-Fornaro per l'elezione diretta dei senatori-consiglieri regionali.

DISEGNO PERVERSO Se l'unità del partito per il premier è un valore, è vero altrettanto, dice Renzi, che «per stare uniti non si può tenere bloccato il Paese». Concetto che certifica, in un certo senso, il prezzo da pagare alla necessità di andare avanti per «non essere condannati a discutere per i prossimi 10 anni», senza che nulla cambi. Perché la riforma costituzionale, dice, «non è un giocattolino e noi abbiamo il dovere di dare una risposta».
Parole che la minoranza rigetta al mittente. Roberto Speranza, esponente di Area riformista, lo aveva già annunciato: troppo tardi. E lo ha ripetuto anche ieri: «La proposta è insufficiente, serve un'iniziativa del Pd e una spinta del governo». E ancora: «Avremmo avuto l'Italicum senza la fiducia e il Pd che fa da motore?». Replica di Renzi: «L'alleanza con altri non è un disegno perverso del governo ma lo stato di necessità che deriva dalla mancanza di numeri in Parlamento».

STAI SERENO Alla fine la relazione viene approvata all'unanimità e la minoranza decide di non votare. Ma la frattura resta. Chi un mezzo passo avanti lo ha fatto è Gianni Cuperlo che dice di voler ricucire la rottura ma non risparmia critiche al segretario. E annuncia: «Se un accordo vero sulla legge elettorale non ci dovesse essere, il 4 dicembre non posso votare la riforma che ho già votato 3 volte in Parlamento ma Matteo ti dico stai sereno perché se sarà così un minuto dopo comunicherò le dimissioni alla presidente delle Camera». Cuperlo non esclude ormai più nulla. Tutto è possibile. Ma si ostina a credere che «una rottura si possa almeno limitare. Dopo, se necessario, ci dividiamo». Aria di scissione? «Io sono ottimista e spero si arrivi a una ricomposizione». Se lo augura anche Dario Franceschini. Propone di trovare un'intesa da trascrivere dopo il referendum in Parlamento. Ma la strada da qui al 4 dicembre è ancora lunga, lastricata di insidie, trappole e trabocchetti.

Bersani frena i suoi: devono cacciarci Ma SI già al lavoro sulla federazione

ROMA La proposta di Sinistra italiana già è pronta. Al congresso che si terrà dal 10 al 12 febbraio arriverà formalmente l'offerta ai ribelli del Pd: riunificare il campo, federare le due sinistre, difendere quel mondo che non si sente più rappresentato, creare una sola forza per fronteggiare «l'usurpatore» Renzi. Ma per ora Bersani e Speranza tengono il punto: «Dovranno cacciarci dal Pd, noi faremo la battaglia al nostro interno in vista del congresso», è la linea.

LO SCONTRO La parola fine sullo scontro interno ai dem non è stata ancora scritta. Cuperlo, pur con mille critiche, ha aperto la porta al segretario. Vuole andare a vedere il gioco di Renzi prima di annunciare il no al referendum. Le pressioni sono fortissime: da Franceschini a Rosato per finire con Orlando, tutti spingono affinché in extremis si raggiunga un'intesa. Ecco perché la minoranza per ora ha preso tempo. Ha preferito non votare la relazione del presidente del Consiglio per non sancire una frattura nel giorno in cui il premier ha messo carte nuove sul tavolo. Ma al momento, viene spiegato, non c'è alcun passo in avanti. Nessuna svolta. Ovvero restano le ragioni del No. Resta la decisione di dare cittadinanza a chi, dall'Anpi alla Cgil e ad altre categorie, non si riconosce nel ddl Boschi. «Per ora è tutta aria fritta», spiega un senatore, «non sarà un colpo di teatro a farci cambiare idea». Renzi arriva fuori tempo massimo, la tesi, aveva tutto il tempo per muoversi e non l'ha fatto. «La verità è che ha paura di perdere il referendum ma la sua è tattica», l'attacco dietro le quinte.
Non c'è fiducia. La convinzione è che il premier voglia soltanto spaccare l'opposizione interna, miri a portare dalla sua parte un pezzo del Pd che non si eè allineato. «Se vince il Sì farà di testa sua, con la vittoria del No in ogni caso sarà costretto a modificare la legge elettorale», il ragionamento.
Ma all'interno della minoranza non sono tutti compatti sull'atteggiamento da tenere. «Qualche mossa Renzi l'ha fatta, la porta non va chiusa ora. Diamoci due settimane di tempo», è l'idea dei più dialoganti. Ma Speranza è stato chiaro: la proposta del Pd, con l'ausilio del governo, va presentata subito, certamente prima del 4 dicembre. Resta tuttavia la paura delle conseguenze di uno strappo. A pesare non è tanto il presente, quanto la prospettiva futura. «Perché - riflette uno dei rivoltosi - noi comunque andremo incontro a delle difficoltà: qualora dovesse vincere il No verremmo additati come dei traditori, dei capri espiatori del fallimento di Renzi. Con la vittoria del Sì, soprattutto se la forchetta dovesse essere consistente, la scelta sarebbe obbligata: ovvero quella di abbandonare il partito per non essere calpestati».

LA STRADA Il sentiero è incerto, anche i ribelli sono consapevoli che è pieno di insidie. Ma Bersani non si sposta di un centimetro: «Nessuna fuga in avanti, si resta a combattere per far tornare il Pd ad essere il Pd», ha messo in chiaro con i suoi. Nessuno trascura il fantasma di una scissione, lo stesso Cuperlo evoca il rischio di possibili divisioni ma è la linea dell'ex segretario la battaglia è sul merito, sul combinato disposto italicum-ddl Boschi. Al momento dunque segnali di un divorzio non ce ne sono ancora, anche se la costituzione a Roma del comitato Democratici per il No, con tanto di logo, viene considerata da qualche ribelle come un indizio da non sottovalutare. «Nel Pd fa notare uno che dal partito è già uscito come D'Attorre ci sono due anime inconciliabili, la politica ha le sue leggi». «La verità è che quella di Renzi si sfoga un bersaniano - è una finta trattativa, soltanto una mossa tattica per lasciarci il cerino in mano». Da qui la situazione di difficoltà, tanto che alcuni di coloro che sono pronti ad immolarsi per il No al ddl Boschi non nascondono «un chiaro errore di comunicazione». «Bersani e Speranza osserva un deputato hanno sbagliato ad uscire con quelle interviste: così si fa passare il messaggio che siamo noi quelli che hanno minato l'unità del partito».

IL TORMENTONE In ogni caso la guerra continua. Ieri in direzione Franceschini ha parlato di «tormentone», della necessità di chiudere presto la partita. E su questo punto la minoranza è d'accordo: «Se Renzi osserva uno dei ribelli vuole veramente l'accordo incontri Bersani e delinei un percorso insieme». La minoranza è sulle barricate anche sul caso Roma. «Marino via perché incapace? Per le sconfitte subite quanti ne avremmo dovuto cacciare», attacca Cuperlo, «andava espressa vicinanza, non arroganza». «Io ho apprezzato molto la tua sensibilità umana nei confronti Ignazio Marino», gli risponde Giachetti, «mi sarebbe piaciuta questa sensibilità quando, mentre io cercavo di fermare il vento con le mani, Ignazio Marino diceva che io ero il maggiordomo di Renzi».

Il leader: vogliono la scissione hanno pronto anche il simbolo

ROMA «Ma non vedete che hanno già pronto il logo per il No al referendum?», ha fatto notare Matteo Renzi a quanti dei suoi spingevano per un accordo con la minoranza, o almeno per andare incontro alle loro richieste. Il segretario ha preso quella notizia del simbolo già pronto come in genere viene presa da tutti i segretari di partito, come il preannuncio di una scissione ormai nei fatti, nelle cose. E l'ha pure denunciato dalla tribuna della direzione: «Mentre si facevano appelli all'unità, c'era già chi prevedeva il logo Democratici per il No». A sera, con i suoi, ha tirato le fila di questa lunga giornata: «Abbiamo mostrato che facciamo sul serio. Adesso si assumeranno la responsabilità, se vogliono rompere. Io non posso bloccare il Paese per fare contento qualcuno della minoranza».

STRADE PARALLELE L'ennesima direzione annunciata come l'ennesima resa dei conti, da questo punto di vista ha deluso le aspettative. Non perché sia stato un dibattito al miele, anzi; ma perché le due fazioni hanno di fatto operato le loro scelte, ma per renderle chiare e manifeste si aspetta l'esito del referendum. E fino a quella data nessuno farà gesti di rottura senza ritorno, si è imboccato il cammino della drole de guerre, la strana guerra, quando il conflitto mondiale era scoppiato ma ancora sembrava di no. E' toccata un bel po' di fatica, al premier segretario, fare quelle aperture sulla commissione che, post referendum, dovrà verificare la possibilità di cambiare l'Italicum, ma alla fine l'ha fatta (e del resto, non era Andreotti a teorizzare che «quando non vuoi far nulla, fai una bella commissione»?), Cuperlo e Speranza hanno fatto finta se non di accettarla, almeno di posticipare il redde rationem.
Fino a un minuto prima dell'inizio dei lavori si è cercato di mediare, trattare, trattare e mediare. Auspice l'attuale capogruppo, Ettore Rosato, e il suo precedessore, Roberto Speranza poi dimessosi per puntare al ruolo di anti-Renzi, si è cercato di trovare se non la quadra, almeno di evitare la rottura. Per il momento il titanico tentativo è stato apparentemente raggiunto, ma le strade tra Renzi e minoranza restano parallele, lontane. Prendendo a prestito un ragionamento esposto da Zagrebleski proprio nel dibattito tv con Renzi, la rottura sostanziale c'è già stata, quella formale ancora manca. L'impressione è che nel Pd attuale maggioranza e minoranza marcino ormai come separati in casa. Con la frazione bersaniana che ha scelto di puntare tutte le carte sul No al referendum senza subordinate, e la fazione di maggioranza che punta tutto sull'opposto, sul Sì al referendum per farne poi la base di massa del futuro Pd a trazione renziana. «Ma anche se alla fine vincesse il No, che farà poi Bersani? Dove va? Farà la costituente di sinistra per puntare ad avere il 7-8 per cento? Mah, non li capisco», allargava le braccia alla Camera Beppe Fioroni prima di recarsi al Nazareno. «Certo, il prolungato silenzio di Veltroni mi inquieta un po'», aggiungeva poi sornione, ma chi ha parlato con il fondatore del Pd lo ha trovato sì amareggiato per questioni più personali che politiche, ma completamente schierato per il Sì e puntualmente pronto a difenderne ragioni e motivi.

CONGRESSO PERMANENTE Si usa dire che nel Pd c'è il congresso permanente. In realtà, si è già svolto. Con i vari big che si sono già schierati. A cominciare da Dario Franceschini che appena diventato ministro aveva sciolto la corrente e teorizzato che non si sarebbe più occupato di politica partitica, e ache adesso è tornato con tutt'e due i piedi nell'agone. Si sono schierati con Renzi anche gli Orlando e i Martina, presenti l'altra settimana alla Camera del lavoro di Milano e in bella vista in foto di gruppo assieme a Finocchiaro, Fassino e Luigi Berlinguer, aspiranti a rappresentare la sinistra interna del Pd prossima ventura, critica quando serve, ma leale e soprattutto interna. Non a caso Renzi ha fatto sapere di avere apprezzato parecchio l'intervento di Piero il lungo in direzione, specie quando Fassino ha smontato la peregrina tesi che il doppio turno affida a una minoranza il potere, «per parlare di corda in casa dell'impiccato, a Torino la Appendino ha vinto al ballottaggio avendo riportato il 31% al primo turno. E a preso il 60% dei seggi». Per l'ultimo segretario dei Ds, «ogni proposta che ridimensiona il maggioritario ci porta dritti a larghe intese e governi di coalizione, e noi del Pd con chi dovremmo farla la coalizione, con l'attuale Sel?». Dibattito tra sordi. L'esito del 4 dicembre servirà a sciogliere anche il nodo che attanaglia il Pd fin dal suo sorgere.

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