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Pescara, 25/11/2024
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Data: 27/11/2016
Testata giornalistica: Il Messaggero
Statali, dopo la Consulta il governo rinuncia alla riforma dei dirigenti

ROMA Il giorno dopo la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo un pezzo importante della riforma della Pubblica amministrazione, al governo si provano a tirare le fila per capire se qualcosa si può ancora salvare. Ma due provvedimenti, considerati fondamentali, sembrano oramai destinati ad un binario morto. Irrecuperabili. Si tratta della riforma della dirigenza pubblica e delle nuove regole sul trasporto pubblico locale. I due testi erano stati approvati giovedì scorso dal consiglio dei ministri dopo un lungo iter. Ma soprattutto, il via libera era arrivato proprio allo scadere dei termini previsti dalla legge delega, che fissava ad oggi la dead line per licenziarli. L’archiviazione della riforma della dirigenza e di quella del trasporto pubblico, è un grave colpo per il governo. All’interno dei provvedimenti c’erano norme considerate importantissime da Palazzo Chigi. A partire proprio dalla dirigenza pubblica, che veniva fatta confluire tutta in un ruolo unico. Il testo prevedeva incarichi a tempo di soli quattro anni e la possibilità di licenziare i dirigenti revocati per scarsi risultati. Così come veniva rivisto il sistema di remunerazione, legando maggiormente gli stipendi al merito, considerando che almeno il 50% della retribuzione avrebbe dovuto essere collegato al risultato. Ma anche le norme contenute nel secondo decreto ritirato, quello sui servizi pubblici locali, erano ritenute importanti. Era prevista, per esempio, un’accelerazione al 2017 delle gare per l’assegnazione dei trasporti pubblici. E poi la possibilità di prevedere nei contratti di servizio il rimborso dei biglietti dei bus nel caso di ritardo delle corse.
GLI ALTRI TESTI Altri due decreti, potrebbero invece sopravvivere. Si tratta di quello sulla riduzione delle ottomila società partecipate dagli enti locali, e di quello ribattezzato dei «furbetti del cartellino», che introduce corsie veloci per il licenziamento di chi attesta falsamente la presenza in servizio. L’intenzione sarebbe quella di approvare dei decreti correttivi sui quali poi raggiungere un’intesa nella Conferenza con le Regioni. Ieri intanto in un lungo poste su Facebook, il capo della segreteria tecnica del ministro Madia, ha espresso tutta la delusione per la decisione della Consulta. Lamentando il fatto che i giudici, con una sentenza “evolutiva” (cioè cambia idea rispetto a prima) hanno deciso che non basta che il governo abbia aderito ai pareri del parlamento, del consiglio di Stato e di regioni e comuni, ma che occorre un vero e proprio accordo con tutte le Regioni. «E qui viene il bello», scrive Caligiuri, «perché le Regioni non decidono a maggioranza se fare o meno l’accordo , ma serve unanimità. Quindi», spiega, «se una sola Regione è contraria niente accordo. Non conta la volontà del governo, né l’ok di camera e senato, né quello del Consiglio di Stato e nemmeno l’ok di chi rappresenta ottomila comuni e l’ok di 19 regioni. Se una Regione e’ contraria salta tutto e la legge non si fa. Dopo due anni», è l’amara considerazione, «abbiamo scherzato. Così funziona oggi il nostro assetto istituzionale». Quando i contrappesi diventano molto più dei pesi, è la conclusione, «il risultato è la paralisi». Ieri anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si è augurato che la riforma non venga accantonata.

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