ROMA «Un bel governo tecnico, come quello di Monti». Ad agitare lo spettro del governo da «macelleria sociale», definizione molto usata nel 2011 da Nichi Vendola, sono ormai tutti i sostenitori del Sì. Matteo Richetti, grande cerimoniere dell'ultima Leopolda, agita lo spettro facendo nome e cognome, ma anche Renzi non si tira indietro e, intervistato da Canale5, sostiene che il governo tecnico lo «si scongiura solo votando Sì». Anzi, per essere ancora più esplicito, dice che «il 22 dicembre inaugureremo la Salerno-Reggio Calabria. Poi vedremo chi ci sarà al governo». Di restare a palazzo Chigi in caso di vittoria del No, non ne ha proprio voglia. Far finta, in caso di sconfitta, che non sia accaduto nulla e tirare a campare per un altro anno portando da solo il peso della sconfitta, non si addice al personaggio che sulle possibili e nefaste conseguenze del dopo voto sta puntando molte delle sue carte.
PAURA Obiettivo, smuovere quella parte di elettorato meno politicizzato ma molto attento al proprio portafoglio. Quella parte del Paese che l'attuale governo ha gratificato con i tanto criticati bonus che per Renzi «sono meglio dei malus di Monti», che infatti li contesta. Ad aiutare il premier nei giorni scorsi è intervenuto anche il settimanale britannico Economist che ha invitato gli italiani a votare No per favorire la nascita di un altro governo tecnico. Per Renzi non si tratta solo di uno spauracchio da agitare per spingere al Sì la maggioranza silenziosa del Paese, ma di una semplice constatazione. Ovvero che se domenica prossima dovesse perdere andrà in Parlamento rassegnando le dimissioni perché, a sui giudizio, sarebbe «paradossale» che coloro che «mi accusano di essere un premier non eletto», si acconcino - come sembra voler fare Berlusconi - per «tenermi in quel posto» o «mandare a palazzo Chigi un altro premier non eletto».
A quel punto la palla della crisi di governo passerebbe al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, una volta constatato che senza il Pd sono impossibili nuove maggioranze, dovrà concordare con il segretario del Pd (sempre Renzi) tempi e programmi di un esecutivo che dovrà fare alcune cose - prima di tutto votare la legge di Bilancio - e tentarne altre. Come la legge elettorale. Tre mesi, nei ragionamenti che si fanno a palazzo Chigi, sono sufficienti per rimettere mano alla legge elettorale in modo da andare alle urne a primavera. Se non si riuscirà nell'impresa, per l'attuale presidente del Consiglio - che potrebbe decidere di tornare a palazzo Chigi con un Renzi-bis al quale staccare la spina nel momento concordato - si possono fare piccoli ritocchi e votare ad aprile con due leggi elettorali differenti.
FUMO A Renzi fa molto comodo la drammatizzazione dell'eventuale risultato negativo, sia nel Pd, dove la minoranza verrebbe accusata di aver fatto fare a Renzi la fine di Prodi, sia fuori. Specie tra coloro che votano No, ma temono come il fumo negli occhi che siano i Cinquestelle a trarre i maggiori vantaggi dall'esito negativo del referendum. Tra questi molti dei più stretti collaboratori del Cavaliere che invece si è convinto, dopo il colloquio con Mattarella, che la legislatura arriverà alla scadenza naturale. In tempo, quindi, per essere riabilitato, e quindi candidabile nel 2018. E magari ancora alla testa del Milan, squadra che non sembra ancora molto convinto di voler cedere proprio in vista di una possibile ricandidatura. Il voto a primavera taglia invece fuori l'uomo di Arcore - che con i calendari del Quirinale ha avuto problemi altre volte - e rende lo scontro elettorale una partita a due tra il Pd di Renzi e il M5S di Grillo.
Lo scenario - agitato a mezza bocca dal premier - contrasta con la convinzione che invece un risultato positivo sia a portata di mano e che gli insulti di Grillo («scrofa ferita», «serial killer») galvanizzano i supporter pentastellati sulla rete, ma spingono alle urne quel blocco moderato che in tutte le consultazioni ha fatto la differenza.