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Pescara, 25/07/2024
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Data: 06/12/2016
Testata giornalistica: Il Centro
Da Mattarella stop a Renzi «Scadenze da rispettare». Lascerà dopo la manovra. Ipotesi per Palazzo Chigi: Franceschini fino al voto. Ma il segretario del Pd preme per andare a nuove elezioni il prima possibile

ROMA Matteo Renzi “congela” le dimissioni fino all’approvazione della legge di Bilancio, che secondo le intenzioni della maggioranza dovrebbe avvenire prestissimo. Un’approvazione lampo della manovra in Senato, in 48 massimo 72 ore. È questa la soluzione accettata dal premier, che ieri ha ringraziato a Palazzo Chigi i suoi ministri ed è salito al Quirinale per due volte ma non ha formalizzato le sue dimissioni. «Lo faccio per senso di responsabilità e per evitare l’esercizio provvisorio». L’addio irrevocabile arriverà comunque molto presto, dopo l’approvazione della manovra. «Vi sono di fronte a noi impegni e scadenze di cui le istituzioni dovranno assicurare in ogni caso il rispetto, garantendo risposte all’altezza dei problemi del momento» ha detto il capo dello Stato, che ieri ha ricordato come l’alta affluenza al voto «è la testimonianza di una democrazia solida» e poi ha fatto capire che esplorerà ogni possibile percorso per evitare l’interruzione anticipata della legislatura. «Il presidente del consiglio, a seguito dell’esito del referendum costituzionale tenutosi nella giornata di domenica, ha comunicato di non ritenere possibile la prosecuzione del mandato del governo e ha pertanto manifestato l’intento di rassegnare le dimissioni. Il Presidente della Repubblica, considerata la necessità di completare l’iter parlamentare di approvazione della legge di Bilancio onde scongiurare i rischi di esercizio provvisorio, ha chiesto al presidente del consiglio di soprassedere alle dimissioni per presentarle al compimento di tale adempimento» si legge nel comunicato del Quirinale. La decisione di rimanere a palazzo Chigi fino all’approvazione della manovra arriva nel giorno in cui l’Ue decide di non infierire e “congela” la richiesta di misure aggiuntive sulla manovra 2017 ma chiede al governo italiano di tenere sotto controllo i conti pubblici. Quanto alla manovra, oggi dunque partirebbe come previsto l’iter a palazzo Madama. La Commissione Bilancio è convocata per le 12 per le comunicazioni al presidente del Senato, passaggio preventivo per l’apertura della sessione di bilancio. Il passaggio in Commissione del testo sarebbe solo finalizzato alla valutazione delle coperture e non verrebbe presentata alcuna proposta di modifica. Successivamente la richiesta di inviare direttamente il provvedimento in Aula, per consentirne l’approvazione lampo, sarebbe avanzata nella riunione della Conferenza dei capigruppo fissata per le 13. Il testo “blindato” arrivato dalla Camera si compone di un solo articolo e pertanto il via libera potrebbe avvenire in tempi rapidi, entro l’8 o al massimo il 9 dicembre, grazie all’accordo tra i gruppi. Non sarebbe dunque forse necessario neanche porre la fiducia e, in ogni caso, di una “fiducia tecnica”, ovvero finalizzata soltanto a far decadere gli emendamenti. Ma sull’intenzione della maggioranza di andare verso un rapido ok alla manovra pesa anche l’atteggiamento delle opposizioni. Fi, per esempio, già frena, perché il timore è che il via libera possa portare ad un processo di accelerazione alle urne anticipate. Ma non solo. «Le fiducie tecniche sono del tutto impraticabili. Si può lavorare alla messa in sicurezza di alcuni punti nevralgici della legge di Bilancio ma è necessario, perché questo accada, che vengano stralciate tutte quelle parti che riguardano piccoli e grandi finanziamenti di mero sapore elettorale» dicono Renato Brunetta e Paolo Romani. Ma non c’è solo la legge di Bilancio che coinvolge le Camere e il governo. Mattarella sa bene che la Corte Costituzionale ha rinviato l’esame sull’Italicum per non interferire con la campagna referendaria. E che la sentenza costituirà necessariamente la base della futura legge elettorale cui dovrà mettere mano il Parlamento per modificare l’Italicum. Non fosse altro che per estendere al Senato lo stesso sistema elettorale che sopravviverà per la Camera dei deputati dopo la sentenza dell’Alta Corte.

Ipotesi per Palazzo Chigi: Franceschini fino al voto. Ma il segretario del Pd preme per andare a nuove elezioni il prima possibile

Dimissione congelate fino a domani. Sergio Mattarella ha convinto Matteo Renzi a rinviare la formalizzazione delle sue dimissioni da Palazzo Chigi fino all’approvazione della legge di Bilancio. Dunque domani, se tutto andrà liscio, il premier lascerà la poltrona come annunciato in diretta tv domenica notte. A stretto giro di posta cominceranno le consultazioni al Quirinale. Le opposizioni chiedono di tornare al voto il prima possibile. E in questa direzione spinge anche una parte dei renziani della prima ora, convinto di poter capitalizzare quel 40,9% che ha votato Sì. E anche lo stesso Renzi. Ma il Colle come da prassi dovrà verificare se in Parlamento ci sono i numeri per un altro governo politico, capace, una volta messi in sicurezza i conti dello Stato, di fare la riforma elettorale. Un governo che, stanti i numeri, non potrebbe nascere che con il sostegno del Pd. Ed è qui che iniziano i problemi. Matteo Renzi infatti ha annunciato le dimissioni da palazzo Chigi. Non ha però ovviamente nessuna intenzione di lasciare la politica. E avrebbe cambiato idea sull’ipotesi circolata con insistenza, di dimettersi anche da segretario del Pd. Dunque il pallino sarà ancora nelle sue mani. Toccherà a Renzi, insomma, decidere se e come fare nascere in Parlamento un nuovo esecutivo. Come segretario del Pd quando salirà a Colle anche l’ormai ex premier chiederà al capo dello Stato di andare al voto il prima possibile, entro giugno al massimo. Ovviamente il Colle non sarebbe d’accordo. In un anno che potrebbe essere decisivo per l’Europa, il Quirinale è convinto che la stabilità politica possa aiutare la ripresa economica ancora flebile dell’Italia. Ed è consapevole della necessità di riscrivere una legge elettorale il più possibile condivisa in Parlamento. Ma tra i renziani è molto forte la paura dell’effetto palude, ovvero il rischio del logoramento della leadership di Renzi che potrebbe arrivare da un sostegno a un governo non guidato dal segretario dem. Un po’ una ripetizione di quanto accaduto a Pier Luigi Bersani. convinto da Giorgio Napolitano a rinviare il voto e poi uscito dalla competizione con la «non vittoria». E sono proprio i renziani della prima ora a porre con chiarezza la questione delle elezioni anticipate. «Il Pd può aver paura di molte cose ma non delle elezioni. Andremo dal presidente Mattarella a dare il nostro sostegno ad ogni soluzione che sceglierà ma tenendo ben presente che bisogna andare a elezioni il prima possibile. È evidente che non si può fare un quarto governo non eletto: ridiamo la parola agli elettori ma con una legge elettorale che dia la possibilità a chi vince, chiunque sia, di avere la necessaria solidità delle istituzioni», spiega Matteo Richetti a Otto e mezzo. Dunque sì a un nuovo governo a patto che sia chiaro l’orizzonte ristretto, un sostegno a tempo per un esecutivo che porti il Paese di nuovo al voto. Un governo tecnico, ma politico, guidato da un esponente dem del quale Renzi si fidi o il più distante possibile da lui. Per esempio il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, o Graziano Delrio. Meglio ancora se fosse Pietro Grasso, il presidente del Senato. È la seconda carica dello Stato. Se fosse lui a guidare l’esecutivo verso il voto, il Pd potrebbe prendere le distanze dal governo. Non finendo impantanato. In queste ore però sono molte le ipotesi ancora in campo. Pier Carlo Padoan per esempio potrebbe essere la figura del traghettatore. È molto stimato in Europa e risulta in testa alla classifica di popolarità dei ministri del governo. Ma come segretario del Pd Renzi dovrà fare alleanze decisive anche in vita di quello che i renziani definiscono «percorso congressuale». L’obiettivo sarebbe quello di arrivare a nuove primarie per essere consacrato candidato premier prima del voto. Dunque sarà necessario trovare forti alleanze interne. Per esempio con Dario Franceschini, il ministro della Cultura che conta in Parlamento su molti fedelissimi. E se fosse lui il prossimo premier?

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