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Pescara, 25/07/2024
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Data: 07/12/2016
Testata giornalistica: Il Centro
«Governo istituzionale o subito alle elezioni». La proposta di Renzi respinta dalle opposizioni. Nessuno vuole appoggiarlo. L’altolà di Mattarella: «Inconcepibile andare a votare con due leggi diverse». Dal jobs act alla giustizia. Leggi che possono saltare. A rischio anche il Patto per Roma e il contratto degli statali: serve il testo unico

ROMA Confermare le dimissioni da presidente del Consiglio già oggi, subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio che avverrà in mattinata e sulla quale il governo ha posto la fiducia. Ma anche l’impegno ad evitare accelerazioni improvvise verso un voto anticipato e, soprattutto, la disponibilità a sostenere un governo istituzionale, «o di responsabilità», con la condizione che ci sia la convergenza delle forze parlamentari in campo. Il progetto di Matteo Renzi è chiaro. Ma dalle forze di opposizione arriva un secco no. Non lo appoggerebbe la Lega e neanche il Movimento 5 Stelle che chiedono elezioni subito. E non è disposto ad appoggiarlo Forza Italia. «Il Pd ha la maggioranza alla Camera e al Senato» ha spiegato il Cavaliere ai suoi «tocca a loro trovare una soluzione». Renzi, insomma, non intende appoggiare un governo che possa essere esposto ai continui attacchi delle opposizioni. Vuole un governo di responsabilità e se questo non si potrà avere, allora meglio andare al voto. Ma lo stop ad elezioni in breve tempo arriva da Sergio Mattarella, che dovrebbe cominciare le consultazioni al Quirinale domani o dopodomani e per il quale il voto senza riforma elettorale è «inconcepibile». Il governo deve avere una maggioranza uniforme sia alla Camera che al Senato e serve dunque un sistema elettorale che lo garantisca. Fino a quel momento non è possibile mandare a casa il Parlamento. Sulla carta, quindi, le elezioni politiche in estate o autunno 2017 potrebbero essere anche una eventualità. Ma prima è molto difficile. Certamente non fino alla sentenza della Corte costituzionale del 24 gennaio sull’Italicum e le eventuali modifiche che ne possono conseguire per dare a Camera e Senato un sistema di voto omogeneo in grado di esprimere analoga maggioranza sul governo. La data del 24 è decisiva per capire anche i tempi di un’eventuale nuova campagna elettorale. L’Huffington Post ha anticipato ieri la posizione del Colle. Il capo dello Stato invita ad attendere il pronunciamento della Consulta e spiega: «È inconcepibile indire elezioni prima che le leggi elettorali di Camera e Senato vengano rese tra loro omogenee. Il risultato del referendum ha confermato un Parlamento con due Camere, regolate da due leggi elettorali profondamente differenti, l’una del tutto proporzionale, l’altra fortemente maggioritaria con forti rischi di effetti incompatibili rispetto all’esigenza di governabilità». Nel centrodestra premono per andare al voto Fratelli d’Italia e Lega, disponibili ad accettare qualunque sistema di voto pur di andare al più presto alle urne. Non ha invece fretta Silvio Berlusconi che vorrebbe più tempo per riorganizzare le fila di Forza Italia e impedire a Salvini di esercitare la leadership della coalizione. Pronto al voto il M5S: il partito di Grillo suggerisce di introdurre una piccola modifica all’Italicum affinché possa essere utilizzato, su base regionale, anche per l’elezione dei senatori. E Renzi? Il premier si dice indisponibile a tornare a Palazzo Chigi per guidare un esecutivo di transizione. Si parla anche del governo “di scopo”, che guidi il Paese nel percorso che porterà alla nuova legge elettorale e che possa andare a Bruxelles a negoziare sui conti pubblici. Su chi potrebbe essere a guidarlo non ci sono indicazioni chiare: Pier Carlo Padoan e Pietro Grasso rimangono i candidati più gettonati. Stando alle indiscrezioni trapelate dal Quirinale, sembra che il presidente della Repubblica abbia “offerto” a Renzi la possibilità di guidare un governo di scopo. Cosa farà il premier? Difficile immaginarlo. Quel che è certo è che oggi si presenterà alla direzione con una proposta secca: «O un governo di responsabilità nazionale con la più ampia partecipazione delle forze politiche o le elezioni». Quando? Tutto dipenderà dalla legge elettorale.

Dal jobs act alla giustizia. Leggi che possono saltare. Le dimissioni del premier “congelano” una serie di provvedimenti in Parlamento. A rischio anche il Patto per Roma e il contratto degli statali: serve il testo unico

ROMA Dopo mille e quindici giorni di governo, a quattro anni dalla discesa sul campo della politica nazionale, Matteo Renzi ha perso il referendum costituzionale. Ed ora, in attesa che le dimissioni vengano formalizzate, sono molti i provvedimenti in itinere tra Camera, Senato e Commissioni parlamentati destinati a saltare o ad essere congelati in attesa di una schiarita sulla crisi. Ecco le principali. Jobs act. Uno degli aspetti più intricati connessi al fallimento del referendum riguarda proprio i riflessi sulla riforma del mercato del lavoro, uno dei simboli del governo Renzi. Con il cambiamento istituzionale l’assegno Aspi, destinato ad aiutare i disoccupati in attesa di trovare una sistemazione, resta in bilico tra Stato (che avrebbe dovuto assumerne il controllo) e Regioni. Nei fatti, oltre al rischio del conflitto di attribuzione, al momento ciascun governatore deciderà come quantificare il sussidio in autonomia . Riforma Pa. Molte delle norme che modificano pezzi importanti della macchina statale restano a metà del guado, in quanto alcuni decreti attuativi non sono stati ancora emanati. Uno dei problemi più spinosi riguarda i cosiddetti furbetti del cartellino messi in salvo da una sentenza della Consulta che ha dichiarato l’incostituzionalità del decreto attuativo. Il governo stava preparando una modifica per rispondere ai rilievi ed evitare così il reintegro di alcuni statali licenziati dopo essere stati colti in flagrante. Ma, vista la crisi dell’esecutivo, tutte le azioni disciplinari tornano in mano ai dirigenti in un clima di incertezza assoluta. Giustizia. Il disegno di legge, che puntava a modificare profondamente le regole della prescrizione e delle intercettazioni e che, tra l’altro, prevede un inasprimento delle sanzioni penali per furti e rapine, è stato già approvato dalla Camera e sarebbe dovuto approdare in aula al Senato proprio oggi. La discussione potrebbe subire uno slittamento ed essere rinviata al 2017 ma se, come è probabile, la legislatura dovesse essere interrotta, l’impianto del disegno potrebbe essere travolto Contratto statali. Alcuni giorni fa governo e sindacati hanno firmato l’intesa quadro per il rinnovo del contratto degli statali individuando in 85 euro la misura media mensile degli aumenti. Per formalizzare la pratica occorre scrivere entro febbraio il nuovo testo unico sul pubblico impiego. Con la crisi, l’accordo finisce in alto mare insieme a due cardini della riforma che riguarda i dipendenti statali: il posto fisso e gli scatti di anzianità. Banche. La scorsa settimana il Consiglio di Stato ha bocciato, rinviando il parere alla Consulta, il decreto Bankitalia che serve per limitare il diritto di recesso (nel quadro della riforma che trasforma le banche Popolari in società per azioni) degli azionisti che abbandonano gli istituti. In attesa del pronunciamento della Corte, il governo stava preparando le modifiche per evitare guai alle banche che hanno già operato una stretta al recesso. La crisi rischia di bloccare il dossier. Doppio cognome. Alcune settimane fa la Consulta ha stabilito il diritto delle madri di imporre il proprio cognome ai figli imprimendo un impulso ad un disegno di legge sul tema parcheggiato al Senato da due anni. È probabile che la materia subisca un nuovo stop. Concorrenza. La crisi di governo appare come il colpo mortale per il ddl di riforma, il cui iter parlamentare era stato traumaticamente interrotto ad aprile dopo le dimissioni del ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi per il caso Tempa Rossa. Il provvedimento, attualmente in Commissione industria al Senato, non ha comunque mai scaldato il suo successore, Carlo Calenda. Patto per Roma. Virginia Raggi ha esultato per il No al referendum ma il suo alter ego sindaco della Capitale rischia di pentirsene: la fine del governo segna l’interruzione delle trattative sui 2 miliardi di investimenti da sbloccare in favore della città.

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