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Pescara, 25/07/2024
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Data: 08/12/2016
Testata giornalistica: Il Centro
Renzi si è dimesso, la parola a Mattarella. Oggi le consultazioni con i presidenti di Camera e Senato, Grasso e Boldrini. Il premier uscente: «Pronti al voto dopo Consulta, o un esecutivo con tutti». I peones non vogliono perdere la poltrona. La preoccupazione per il ritorno a casa senza vitalizio colpisce tutti. Anche i grillini ma Di Maio nega

ROMA Le battute che chiudono il mandato di Matteo Renzi evocano un ritorno al privato e alla sua Firenze: la festa di compleanno della nonna ottantaseienne, il torneo con i figli alla Playstation. Ma il premier - che alle 19 arriva al Quirinale per consegnare le proprie dimissioni al capo dello Stato, «pronto cedere il campanello» al suo successore - non sembra affatto disposto a rinunciare al capitale di 13 milioni e mezzo di voti incassati con il referendum, né a passare la spugna sui risultati del suo governo, che condensa nello slogan «meno tasse, più diritti». È per questo che, se il Pd sarà chiamato ad assumersi la responsabilità di guidare il nuovo esecutivo, Renzi vuole che il peso sia condiviso da altri partiti: «Per non sentirsi dire che questo è il quarto governo non eletto» o «il terzo governo figlio del trasformismo». Dopo il trauma della sconfitta, nulla è più escluso, neppure che sia proprio Renzi a tornare a palazzo Chigi fino a nuove elezioni, ipotesi inizialmente esclusa che con il passare delle ore sembra prendere corpo, perché in Parlamento il Pd ha i voti per sostenere il suo campione. Chiunque egli sia. Il premier caduto sulla via del referendum costituzionale mette fine alla parabola del suo governo al grido «Evviva l’Italia» dopo avere incassato il via libera alla manovra in Senato. La legge di bilancio da 27 miliardi passa a Palazzo Madama con la fiducia posta a nome dell’esecutivo dal ministro Maria Elena Boschi che, accolta dal brusio dei presenti, lascia l’Aula in fretta. Il ddl viene approvato con 173 sì e 108 no, senza modifiche rispetto al testo licenziato dalla Camera e senza astenuti. Neanche 12 ore più tardi, da New York, l’agenzia Moody’s rivede al ribasso le prospettive per l’Italia, portando l’outlook da “stabile” a “negativo”: pesano le riforme già lente che ora hanno ancora meno prospettive. Il voto è il penultimo atto formale prima dell’intervento di Renzi alla direzione del Pd riunita alle 17.30 al Nazareno, che precede la salita al Colle dove il presidente Sergio Mattarella incontra il premier dimissionario per 40 minuti. Una durata che fa presumere qualcosa più di una semplice formalità. La crisi, dunque, è formalmente aperta, il governo resta in carica per gli affari correnti. A partire da oggi, alle 18, il capo dello Stato darà inizio alle consultazioni con il presidente del Senato, Pietro Grasso, la presidente della Camera, Laura Boldrini, e il presidente emerito, Giorgio Napolitano. Il “giro” si chiuderà sabato con Forza Italia, M5s e Pd. Ma le posizioni sono note. Movimento 5 Stelle e Lega continuano a chiedere elezioni subito e Renzi, prima sulla sua “eNews”, quindi davanti ai suoi al Nazareno, non si tira indietro e dichiara di essere pronto ad andare alle urne. «Il Pd non ha paura della democrazia e dei voti - dice dopo essere stato accolto dall’applauso della direzione dem - Adesso si apre la crisi, abbraccio affettuosamente i commentatori che hanno detto che faccio melina per non dimettermi, e sono gli stessi che oggi hanno detto che non mi dimetto nonostante al Senato ci sia la fiducia». Renzi mette in campo la disponibilità del Pd, «partito di maggioranza relativa» a «dare una mano al presidente della Repubblica a chiudere la crisi». Ma non ci sta a fare l’agnello sacrificale: «Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, se gli altri vogliono andare alle urne dopo la sentenza della Consulta (martedì 24 gennaio 2017, ndr), lo dicano». Si andrebbe così al voto con le attuali leggi elettorali come modificate dalla Corte. «Se invece vogliono un nuovo governo «che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali che abbiamo, il Pd è consapevole della propria responsabilità - sottolinea Renzi - Abbiamo già pagato il prezzo della solitudine, e anche gli altri partiti devono caricarsi il peso». È questa dunque la linea, subito bocciata dalle opposizioni, che i dem sosterranno al Quirinale, dove il Pd sarà rappresentato dal vice segretario Lorenzo Guerini, dal presidente Matteo Orfini e dai capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda, con la direzione convocata in modo permamente. Renzi si assume «tutte le responsabilità» per l’esito del referendum, ma rinvia alla conclusione della crisi il confronto interno, che annuncia «molto duro» e in diretta streaming, per essere trasparenti durante l’«incredibile boom» delle richieste di iscrizioni: «Capisco che non c’eravamo più abituati» scherza. A chi ha «festeggiato in modo prorompente» la sconfitta, manda a dire che rifiuta il vittimismo. «Il cammino del Pd non si ferma qui - assicura - Chi ha fatto la maratona sa che la sfida si vince prima con la testa e poi con le gambe». Ma la decisione di non aprire subito il dibattito scatena malumori. Il senatore Walter Tocci, che si è iscritto a parlare, viene convinto a desistere: «Mi viene il dubbio che lo spostamento della riunione sia stato per evitare le discussione...» dice.


I peones non vogliono perdere la poltrona. La preoccupazione per il ritorno a casa senza vitalizio colpisce tutti. Anche i grillini ma Di Maio nega


di Nicola Corda wROMA La paura dei “peones” di tornare così presto alla vita normale c’è, inevitabile, e in pochi pensavano potesse accadere. Nella grande vasca del Transatlantico si parla della fine anticipata della legislatura tra i possibili effetti del referendum e dell’esito di una difficile crisi di governo. Di più: tanto anticipata da non far scattare il tempo minimo per accedere al vitalizio, una data fissata a meta settembre del 2017. La paura c’è sempre stata, c’è ancora e ha accompagnato la nascita dei governi deboli, tenuti in vita dagli onorevoli timorosi di andare a casa. Certo i tempi sono cambiati, le vacche grasse della prima repubblica sono un pallido ricordo e il vitalizio non è più quello di una volta. Per un parlamentare al primo mandato oggi ammonta a circa 950 euro mensili, che comunque scatterebbero al compimento dei 65 anni. Ma considerando che i “novizi” in questa legislatura sono quasi il 70%, si capisce che il timore è ampiamente diffuso, combinato con la grande incognita di una ricandidatura che oggi nessuno può assicurare, neppure con la massima fedeltà al capo di turno. La lotteria delle prossime elezioni farebbe il resto e dunque il “parlamentare precario” sta passando giorni difficili. Guardando dentro le case dei partiti, il Movimento 5 Stelle ha il 100 per cento degli absolute beginners, arrivati in Parlamento grazie alle votazioni on line e una selezione quantomeno approssimativa. Per tutti loro, eccetto le prime linee, la riconferma sarà complicata dalle divisioni che attraversano il movimento e questo è il motivo per cui nessuno osa mettere in discussione la linea ufficiale. «Andiamo al voto prima possibile il problema del vitalizio non riguarda noi» assicura Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera che come altri “cittadini portavoce” ha conosciuto le stanze dorate di Montecitorio. «C’è però un istinto di sopravvivenza che prevale« e nessuno può mettere la mano sul fuoco che pure chi ha nel suo programma la lotta alla casta, non possa esserne colpito. Lo conferma anche un grillino del nord che anonimamente ammette di “non aver voglia di tornare alla vita normale”, certo di non tornare nel grande circo della politica nazionale. Pino Pisicchio è il presidente del gruppo Misto, quello dei “senza casa”, forse precari più degli altri, perché dal giorno in cui sarà sciolta la legislatura dovranno bussare dai vicini. «Il problema per molti è la perdita di uno status, motivazione più antropologica che economica» spiega il parlamentare pugliese, con il pensiero anche a chi è arrivato in Parlamento senza un vero mestiere e perciò nei prossimi mesi dovrà trovare una soluzione per campare. Tuttavia è meno pessimista di altri sulla fine della legislatura perché «arrivare a giugno o ottobre non fa molta differenza».

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