IL POST-referendum procede rapido. Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, il premier incaricato, Paolo Gentiloni, ha già iniziato le consultazioni. E presto presenterà il programma e la compagine del nuovo esecutivo. Tuttavia, conviene valutare bene il voto referendario, prima di riprendere a governare. E a fare opposizione. Insomma, a "far politica". Perché il risultato ha, sicuramente, "punito" Renzi, che, per primo, aveva "personalizzato" questo voto. Ma è difficile individuare il vincitore. Meglio "un" vincitore. Visto che i partiti del No sono diversi. Anzi, diversissimi… per storia, progetto, identità. Per questo, è impossibile, sulla base di questo voto, individuare una nuova e diversa maggioranza "elettorale". Conviene, invece, ragionare ancora – e di più - sul significato di questo voto. Da dove origina, che destinazione e che bersagli abbia. Oltre a Renzi. L'analisi del risultato ha già offerto alcune indicazioni chiare ed evidenti. Riguardo al "retroterra" – letteralmente – del No. Le radici territoriali del rifiuto, infatti, affondano anzitutto e soprattutto nel Mezzogiorno. Nel Sud il No ha, infatti, superato il 70%, nelle Isole. E vi si è avvicinato altrove. In Campania e in Calabria, in particolare. Più del sentimento contrario al Pd e anti-renziano, in alcuni casi (come in Campania) difficile da sostenere, hanno pesato altre ragioni di ri-sentimento. Collegate al malessere sociale che pervade quelle aree. Sul piano economico e occupazionale. Si tratta di un'indicazione utile a valutare un'altra "frattura", che ha caratterizzato il voto referendario in modo evidente. Quella generazionale. Com'è già stato osservato, il No è stato espresso, in misura largamente superiore alla media, soprattutto dai giovani.
L'indagine dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotta giusto alla vigilia della consultazione, lo conferma. Ma fornisce alcune ulteriori precisazioni. Importanti. In particolare, sottolinea come il dissenso verso la riforma e verso il Pd di Renzi sia meno ampio presso i giovanissimi, che hanno fra 18 e 24 anni. Mentre ha raggiunto il livello più elevato (7 su 10 No) tra i "fratelli maggiori", fra 25 e 34 anni. I "giovani adulti", come vengono spesso definiti. Per sottolineare la "difficoltà" di affrancarsi dai vincoli della giovinezza. In particolare, dalla dipendenza dalla famiglia. Sotto il profilo economico, ma anche "domestico". Due su tre, fra loro, vivono (meglio: risiedono) ancora con i genitori. Il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ricordo ancora quando, dieci anni fa, a Parigi, chiesi ai miei studenti i motivi della protesta giovanile – allora dilagante - contro la riforma sul Contrat première embauche (primo impiego), che agevolava alle aziende la possibilità di licenziare i giovani senza giustificazione, nei primi due anni. Gli studenti mi risposero, senza imbarazzo: «Non siamo italiani come lei. Quando andiamo a lavorare, poi non rientriamo. A casa e in famiglia. Andiamo a vivere – e ci manteniamo - da soli».
In realtà, anche in Italia i giovani vorrebbero diventare autonomi. Dalla famiglia. Come i coetanei di altri Paesi europei. Ma non se lo possono permettere. Perché la legislazione in materia non li aiuta. Mentre i tassi di disoccupazione giovanile non hanno pari, in Europa. Così, quando finiscono gli studi, spesso defluiscono nel mondo dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Non perché non vogliano, ma perché non trovano occupazione. Si muovono, invece, nella selva oscura dei lavori intermittenti e precari. Dove riescono a sopravvivere grazie all'appiglio familiare. Al quale ricorrono in caso di emergenza. Cioè, spesso. Così si spiega la ragione per cui fra i giovani-adulti si osservino i picchi di incertezza nel futuro (62%), ma anche la convinzione generalizzata della necessità di "emigrare" all'estero, per fare carriera (73%). Mentre la maggioranza di essi (63%) è consapevole che difficilmente riuscirà a raggiungere – non dico a superare - la posizione sociale dei genitori. D'altronde, solo il 21% di loro pensa che esistano opportunità e possibilità adeguate.
Così, nonostante l'età, circa il 40% dei "giovani adulti" ammette di sentirsi spesso "solo". Molto più, rispetto ai genitori e ai nonni. Ma anche rispetto ai fratelli minori, che hanno meno di 25 anni. Sono "le pene del giovane adulto". Che, perlopiù, ha concluso gli studi, oppure li prosegue, per non sentirsi "disoccupato". Magari intermittente o precario. Come, inevitabilmente, avverrà. I giovani nati negli anni Ottanta. Sono divenuti "invisibili". Mimetici. In continua fuga. Alla ricerca di un lavoro. Un futuro.
Così, non è difficile comprendere le ragioni del No al giovane Renzi. Proprio perché "giovane". Perché aveva "promesso" di rottamare i vecchi e di dare più spazio ai più giovani. Ma i "giovani adulti" vivono sospesi. Non più giovani e non ancora adulti. Confusi. Perché nella nostra società, tutti, o quasi, si dicono giovani. E all'improvviso diventano vecchi. Senza mai conquistare l'età adulta. La maturità. Così "giovani adulti" si sentono vicini al M5s. E hanno votato No perché non hanno speranza. Non vedono il futuro. Ma senza speranza e senza futuro anche la famiglia diventa una prigione. Anche l'Italia. E a loro non resta che la speranza di "fuggire" dal Paese. E dalla solitudine che incombe. Tanto più quando vivono in mezzo ad altri giovani. In-sofferenti come loro. Ma senza dare loro risposta neppure l'Italia può avere un futuro. È destinata a restare un Paese "giovane adulto".