ROMA «Ho sentito dire che non avremmo riconosciuto la sconfitta referendaria. Una canzone diceva, se stasera sono qui.... Ecco, se stasera sono qui è proprio perché quella sconfitta l'abbiamo riconosciuta. Renzi si è dimesso». Dopo aver fatto assopire a metà mattina i pochi deputati presenti, al momento della replica Paolo Gentiloni cita Luigi Tenco e tira fuori le unghie, rispondendo a chi l'ha accusato di essere stato «grigio» e «incolore» e ai Cinquestelle e i leghisti che l'hanno snobbato disertando l'Aula. Così, prima del voto di fiducia della Camera (368 sì, 10 voti in meno di Renzi causa l'esclusione dei centristi ora legati a Verdini) il nuovo premier ha un sussulto: «I super paladini della Carta e della centralità del Parlamento nel momento più importante della vita parlamentare non ci sono. Vi sembra logico?». Ancora: «Bisogna farla finita con l'escalation della violenza verbale. Il Parlamento non è un social network. Va ridata serenità qui dentro per ridare serenità al Paese».
Ecco, «un nuovo clima», «sostituire lo scontro con il confronto». E' questo il core business del discorso di Gentiloni. Diciassette minuti appena e soli due applausi in un'Aula semivuota. Segnali di quanto aperte e dolenti siano le ferite della batosta del 4 dicembre. Ma il successore di Matteo Renzi prova a voltare pagina. Promette il suo «impegno personale» affinché via sia «discontinuità almeno nel confronto». «Ne avremmo davvero bisogno», sospira. Come «avremmo bisogno di convergenze larghe sui singoli provvedimenti»: «La politica e il Parlamento sono luogo di confronto dialettico, non dell'odio e della post verità. Chi rappresenta i cittadini deve diffondere sicurezza, non paura». Applauso.
«GLI STESSI? NON È UN LIMITE»
Gentiloni, sceglie insomma uno stile diverso da Matteo Renzi. Ma non disconosce il suo amico e predecessore. Anzi. «Le dimissioni da premier non erano obbligate, ma averle presentate è stato un atto di coerenza che tutti gli italiani dovrebbero salutare con rispetto». E gonfia impercettibilmente il petto quando afferma: «La maggioranza che sostiene questo governo è di fatto la stessa che ha sostenuto Renzi. Per qualcuno si tratta di un limite. Invece io rivendico il grande lavoro fatto e ne rivendico i risultati. Ne sono orgoglioso».
Già. Ma è già stufo, il premier, di parlare del passato: «Questa è l'ultima volta che vorrei soffermarmi sul modo in cui è nato il mio governo. Da ora voglio occuparmi sulle cose da fare». Non senza aver prima ringraziato Sergio Mattarella «per la sua ferma guida». E aver rivendicato «che questa maggioranza si assume un rischio politico assumendosi la responsabilità di andare avanti per portare il Paese al voto». Come dire: gli altri fanno le anime candide, sbraitano, e noi facciamo il lavoro sporco per permettere di riscrivere «regole elettorali serie e precise». «Il governo non sarà però attore protagonista» sul fronte della legge elettorale. «Pur non restando alla finestra», sarà semplice «facilitatore, accompagnando il confronto». In poche parole: «Tocca al Parlamento trovare intese efficaci».
Guai però a parlare di governo a tempo, anche se le elezioni a giugno sono l'epilogo più probabile. «Se il governo otterrà la fiducia, sarà un governo a pieno titolo», teorizza Gentiloni, «un governo di responsabilità. Lascio ad altri il dibattito sulla sua durata. Per quanto mi riguarda vale la Costituzione: il governo dura fin quando ha la fiducia del Parlamento».
Tracciato l'identikit dell'esecutivo, Gentiloni elenca «le priorità». La prima è la ricostruzione e l'assistenza agli sfollati del terremoto. La seconda è mettere in sicurezza il sistema del credito: «Il governo è pronto a intervenire, se necessario, per garantire i risparmi dei cittadini e la stabilità delle banche». La terza è «il lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno». Questo anche per irrobustire «la ripresa economica ancora lenta» e per affrontare «il disagio della classe media, in particolare il lavoro dipendente e le partite Iva». Quelli corsi in massa a votare No.
Teorizzato che «l'Italia ha un'economia forte, lo dimostrano le profezie sbagliate di apocalisse in base all'esito del referendum» (brusii in aula), Gentiloni affronta i dossier che conosce meglio. Quelli di politica estera. Qui dice di essere «pronto a collaborare con gli Stati Uniti» di Trump, «forti dei nostri principi». Qui, in vista del Consiglio europeo di domani, bacchetta Bruxelles: «E' inaccettabile che passi il principio di un'Europa severa sull'austerity e tollerante verso i Paesi che non accettano di condividere responsabilità comuni» sulla ricollocazione dei migranti. «Non siamo dei guastafeste, ma serve solidarietà, non possiamo farci carico da soli dei profughi sbarcati sulle nostre coste».
Fila mesta alla buvette: finiremo come gli ex del Grande Fratello
ROMA «Quanto durerà? Che fine faremo?». Mai come ieri aleggiavano a Montecitorio interrogativi esistenziali da fine legislatura. Neanche fossimo ai saluti, alle strette di mano finali. In Aula si celebrava un rito che in altre occasioni avrebbe generato entusiasmi: la nascita di un governo. Felicitazioni, complimenti, strette di mano, neo ministri inseguiti fino all'uscita, fotografi ovunque. Ieri niente di tutto questo. Al contrario, i toni dei conciliaboli, le confidenze da corridoio, le intimità da buvette trasmettevano un diffuso senso di rassegnazione.
La strana sensazione, in pieno dicembre, di trovarsi dinanzi ad un «governo balnear-natalizio» e. Persino loro, i grillini, che pure, stando ai sondaggi, avrebbero il vento in poppa, avevano l'espressione di chi ha appena sentito suonare la campanella dell'ultimo giro. «A volte penso che quando finirà questa esperienza faremo la fine degli ex del Grande fratello - si lascia prendere dalla nostalgia-canaglia Stefano Vignaroli, deputato 5Stelle - tra qualche anno ci verrete a cercare per sapere che fine abbiamo fatto. Chi non resterà in Parlamento dovrà cercarsi un lavoro. E per un ex parlamentare non sarà facile». Nessuno di loro ha la certezza di essere ricandidato. Alcuni rischiano di tornare disoccupati, altri precari. Deciderà la lotteria del web. E il pensiero sembra andare a quei contributi - 52 mila euro versati da ogni parlamentare - che se la legislatura non arriverà fino in fondo andranno in fumo. Non potranno essere riscattati né ricongiunti per avere la pensione. Una beffa per tutti, non solo per loro,
La maggioranza renziana ha altro per la testa. Ha ritrovato un governo, ha perso le sue certezze. Solo Michele Anzaldi, amico di lunga data di Gentiloni, ha i neuroni che girano a mille, è sicuro che «andremo avanti» perché «ce lo chiede il Paese».
Giorgia Meloni da sola non riesce a riempire il vuoto dell'Aula disertata dalla Lega e dal M5S. Punta il dito su Gentiloni, Martina e Galletti, tutti in postura da ascolto. Gli unici del nuovo governo rimasti al loro posto. E a comando i deputati di FdI sollevano i cartelli «al voto! al voto!». «Mi vergogno di voi!», urla lei. Scene già viste altre volte che pure sbattute in faccia al neo presidente del Consiglio, uomo mite, così vicino al Rottamatore eppure così diverso, sembrano molto più aggressive di quello che sono.
FEBBRE ALTA
I divanetti si affollano verso sera. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che al mattino aveva a lungo flirtato con una pattuglia dei suoi Giovani turchi, esausto, si accascia su una poltrona colpito da attacco febbrile. Altri meno giovani i mostrano segni di cedimento. È stata una lunga giornata. Maria Coscia, deputata dem che ha seguito passo passo la riforma della Buona scuola, non sembra stupirsi più di tanto per l'assenza nella squadra di governo della ministra Giannini, un'uscita di scena annunciata: «Se ci siamo allontanati da quel mondo, o meglio, se quel mondo si è allontanato da noi, qualche sbaglio evidentemente lo abbiamo fatto. Dovremo riconquistare la fiducia dei giovani e non sarà facile».
MORALE A TERRA
È come se un'atmosfera cupa fosse calata sulla maggioranza. L'espiazione di chi si sente vittima di un destino di cui non ha colpa se non indirettamente. Che non emenda dalle personali responsabilità ma libera dai rimorsi. Non basta aver varato il governo, serve un capo che risollevi il morale. Valeria Fedeli, una della vecchia guardia, non ha l'aria di chi è appena stata promossa ministro ma almeno non sembra afflitta da angosce particolari (non è ancora esplosa la polemica sul caso della sua laurea). Nessuna traccia invece di Maria Elena Boschi. Desaparecida. E mai come in questo caso l'assenza parla più della presenza.