Mi raccomando, non scrivete che ha pianto, eh». Dopo sedici ore di bunker, intermezzate da un blitz di due minuti per chiedere «scusa ai romani e a Grillo», chi sta intorno a Virginia Raggi fa queste gentili raccomandazioni. Il giorno più lungo della sindaca sembra non finire più. All'una di notte è riunita con maggioranza e presidenti dei municipi per tentare l'ultima barricata.
La possibilità del ritiro del simbolo (equivalente grillesco delle dimissioni dal notaio di mariniana memoria) spaventa tutti, dai consiglieri di maggioranza ai fedelissimi («a piede libero», scherzano i maligni) della pentastellata.
A metà pomeriggio anche Daniele Frongia, il link con Marra fin dai tempi dell'opposizione, sbotta: «Sentite allora, mi dimetto io». Il segretario politico della sindaca Salvatore Romeo, che questa volta indossa una cravatta più sobria rispetto al solito, porta acqua e frutta. «No, grazie».
La prima scossa arriva di prima mattina, Raggi è ancora a casa, le chat del cellulare sembrano esplodere: va a un incontro all'università, diserta un altro con la cooperazione dei paesi del Golfo. Non bastavano l'avviso di garanzia all'assessore all'Ambiente Paola Muraro, l'inchiesta della Procura sulle nomine «adesso c'è anche questa». Vista l'occasione e il clima d'assedio, «Virginia» entra in Comune da una porta secondaria. I dipendenti capitolini la salutano con uno sguardo cinicamente romano: «Macché, non ci ha nemmeno risposto: aoh, era nera». Il primo scoglio da superare è la telefonata con Beppe Grillo, la prima di una lunga serie della mattinata. «Beppe, mi sono fatta fregare anche io, non pensavo che le cose stessero così, a ottobre gli avevo fatto fare anche il 335 (la verifica per i carichi pendenti ndr): era pulito». La risposta non convince il comico. Che prima di pranzo si limita a concordare, attraverso Rocco Casalino, un comunicato stampa che sarà letto intorno all'ora di pranzo. Anche se alla fine i comunicatori del Campidoglio tolgono e aggiungono pezzi del discorso.
Lei vorrebbe fare una diretta Facebook ( «Vi prego, non voglio vedere i giornalisti»).
Ma viene costretta a presentarsi nella sala della Piccola Protomoteca per dire «il dottor Marra non è un esponente politico e il mio braccio destro sono i cittadini romani». La frase per quanto ufficiale sembra abbastanza inverosimile anche ai pentastellati. Questa però è la prima versione che ripeterà anche Paolo Ferrara, il capogruppo del M5S, che piomba nella stanza della sindaca (quella del video dell'insediamento «cari romani vi faccio vedere la vostra casa») con un manipolo di realisti-critici. «Ora voglio vedere cosa si inventa per uscire da questo casino». Anche qui, altra riunione. «Virginia ripete sempre lo stesso disco: controlleremo tutti gli atti di Marra, l'ho detto anche a Beppe, sembra ipnotizzata». E pensare che il consiglio comunale deve ancora iniziare, ma già si capisce l'aria che tirerà. In pubblico i consiglieri grillini sono abbastanza in balia di loro stessi. Minimizzano («Marra, chi?») ma c'è anche chi come Pietro Calabrese agita il complotto della magistratura («C'è un disegno contro di noi»). L'unico disegno, a dire il vero, è quello dei consiglieri di Fratelli d'Italia che in Aula scrivono sui cartelli «onestà-omertà». Il coro non è cacofonico.
LA TENSIONE Nella zuffa si butta anche il gruppo del Pd che occupa gli scranni della giunta e si fa espellere dal presidente Marcello De Vito, nei panni del burocrate: «Capisco l'importanza politica ma la sindaca non è tenuta a riferire in Aula, l'articolo 45 del regolamento non contempla comunicazioni per gli arrestati». Roberto Giachetti, lo sconfitto delle elezioni, sconsolato e ciondolante ammette: «Io non sono contento dell'intervento della magistratura: qui è la politica tutta che ci rimette». Ecco, la procura, l'onestà violata. Nei corridoi del Campidoglio, dopo un consiglio interrotto per inagibilità del campo bisognava parlare del bilancio, il commento dei pentastellati è rivolto al domani: «Se escono intercettazioni compromettenti?». Oppure: «Se indagano Virginia per le nomine». Peggio ancora: «Se scappa fuori una telefonata scomoda tra lei e don Raffe'?». A un certo punto del pomeriggio Raggi è sola, anche Frongia è nella sua stanza. Inizia un lungo ping pong con l'Hotel Forum. L'ipotesi del ritiro del simbolo prende forma quando Paolo Ferrara, il capogruppo, varca la soglia dell'albergo dove ad attenderlo c'è Grillo seduto al fianco di Roberta Lombardi (più altri parlamentari ulcerati dalla rabbia). Già solo questa scena parla da sola. In un momento di sincerità, lontano dalla propaganda, anche i comunicatori grillini del Comune ammettono: «Sappiamo che c'è questa eventualità, quella del ritiro del simbolo, insomma, vediamo». Romeo continua a chiedere a Virginia vuoi «acqua, ti prendo un po' di frutta?». Lei, raccontano, più di una volta ha lo sguardo perso nel vuoto. Sono le 22 passate quando continua a capire cosa fare e come muoversi. Il vertice al Forum è terminato, c'è aria di resa in Comune. Il «non mi dimetto» della prima mattina si sgretola. Anche se in Comune tutti sanno che la decisione non passa da lì. Assessore sconsolato: «Questa volta è dura». Virginia resiste e tenta la carte della disperazione: convoca d'urgenza un vertice nella notte con la maggioranza e i dodici presidente dei municipi:«Ragazzi, state con me?». Domanda da porre altrove .