ROMA Raccontano che questa volta perfino il mite e garbato Paolo Gentiloni abbia perso la pazienza. Riferiscono a palazzo Chigi che il premier, di fronte alla seconda gaffe di Giuliano Poletti in meno di una settima, abbia dato una vibrante tirata d'orecchi (telefonica) al suo ministro del Lavoro. Accompagnata da una richiesta esplicita: «D'ora in poi dosiamo bene le parole. Meglio tacere che spararle di così grosse e imbarazzanti». Replica del ministro: «Chiedo scusa. Puoi star certo che starò più attento».
Ma andiamo con ordine. Tutto nasce, esattamente come una settimana fa quando il ministro disse che bisogna andare alle elezioni anticipate prima di giugno per evitare il referendum sul Jobs act, da un nuovo scivolone di Poletti. Parlando a Fano, dopo un pranzo alla cooperativa dei pescatori Pesce azzurro, il ministro afferma: «Se 100 mila se ne sono andati, non è che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». E ancora, dimostrando di credere profondamente nelle parole appena pronunciate: «Intanto bisogna correggere l'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100 mila, ce ne sono milioni qui e sarebbe come dire che i 100 mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti sono tutti dei pistola. Permettetemi di contestare questa tesi. Detto questo, è bene che i nostri giovani abbiano l'opportunità di andare in giro per l'Europa e per il mondo. È un'opportunità per fare esperienza, ma debbono anche avere la possibilità di tornare nel nostro Paese. Dobbiamo offrire loro l'opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare».
Appena le agenzie rilanciano le parole di Poletti, il ministro finisce sulla graticola.
Da destra. Luigi Di Maio, il grillino: «Vada via lui, non i giovani». Barbara Saltamartini, Fdi: «E' più offensivo di Renzi, oibò». Raffaele Fitto: «Se va via Poletti non si porrebbe il problema della fuga dei cervelli, mancherebbe la materia prima».
Da sinistra. Pippo Civati: «I giovani votano No e lui gliela fa pagare...». Nichi Vendola: «Togliamocelo dai piedi». Stefano Fassina: «E' ora che Poletti si dimetta».
Il cellulare di Poletti squilla poco dopo. E' Gentiloni che, si diceva, non l'ha presa affatto bene. Tra l'altro il premier al momento della formazione del governo aveva inserito proprio l'ex leader della Legacoop nella lista dei sacrificabili. Matteo Renzi però l'ha convinto a confermarlo ministro: «Sostituire Giuliano sarebbe un pessimo segnale, vorrebbe dire rinnegare il Jobs Act...».
LA TIRATA D'ORECCHI La conversazione tra il premier e il ministro, raccontano, è vivace. Gentiloni chiede spiegazioni, vuole capire com'è andata. Il ministro prova a difendersi: «Ero a Fano, era appena finito un pranzo alla cooperativa dei pescatori e qualcuno mi ha chiesto della fuga dei cervelli. Ma ti assicuro che con quelle parole non volevo offendere nessuno, anzi. Volevo valorizzare i giovani che restano in Italia. Volevo dire che non esistono sono solo quelli che vanno via».
Gentiloni ascolta. Gli chiede di essere più prudente ed evitare altri scivoloni. Soprattutto impone al ministro una rettifica e scuse esplicite. Poco prima delle sette di sera, quando a Roma si sta per riunire il Consiglio dei ministri, Poletti detta alle agenzie: «Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso. Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie».