ROMA Il lavoro è la priorità del governo, ma il Jobs Act resta per Paolo Gentiloni «un'ottima legge» anche qualora dovesse essere sottoposta a referendum. Da questi due presupposti l'esecutivo non intende recedere e non solo perché Giuliano Poletti è lo stesso ministro del Lavoro del precedente governo, ma anche per quanto sostenuto da palazzo Chigi nella memoria presentata il 5 gennaio dall'Avvocatura dello Stato alla Consulta in cui si definiscono «inammissibili» i referendum della Cgil.
OBBLIGO Prima di valutare possibili interventi, si attende quindi la pronuncia della Corte Costituzionale - prevista per mercoledì prossimo - e i dati dell'Inps che daranno un quadro definitivo sull'utilizzo dei voucher. Sullo strumento - molto contestato anche dai sindacati che ne fanno grande uso - il governo non esclude correzioni. A palazzo Chigi, come al ministero del Lavoro, si attendono i dati del monitoraggio effettuato dopo la modifica avvenuta ad ottobre per decreto che ha introdotto la tracciabilità con conseguente obbligo di comunicare entro un'ora dall'inizio della prestazione dati anagrafici, luogo e ora. Il governo non ha nessuna intenzione di smontare una riforma appena fatta e le possibili correzioni al Jobs Act non toccheranno l'impianto che Gentiloni, al pari del predecessore e del suo ministro, ritiene valido. Un conto sono le possibili modifiche - come quella relativa al tetto massimo di utilizzabilità dei voucher - un conto sono i referendum che, secondo il governo, vogliono riportare il Paese indietro di vent'anni.
L'eventuale intreccio tra i referendum e la fine della legislatura, rischia di arroventare il clima dentro e fuori il Pd. Qualora il quesito venisse ammesso, la consultazione dovrebbe svolgersi in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno. Gentiloni, come Renzi, considera i due argomenti separati ma qualora i quesiti, o uno solo di essi, venissero ammessi le eventuali elezioni anticipate farebbero slittare la consultazione referendaria. Non sarebbe la prima volta, ma la sinistra del Pd, come anche le opposizioni, accusano Renzi di voler andare al voto proprio per evitare una nuova sconfitta referendaria. Nei giorni scorsi è stato lo stesso ministro Poletti ad alimentare - involontariamente - la polemica, osservando che se ci tengono le elezioni politiche il referendum non c'è perché slitta all'anno successivo. «Una constatazione» - così definita da Poletti - che ha scatenato la reazione della Cgil, il sindacato che ha raccolto le firme e che per questo è in polemica anche con la Cisl.
EUROPA Per Palazzo Chigi, come per il Nazareno, l'argomento della fuga dal referendum è «inconsistente» anche perché, sostengono, l'argomento del lavoro e della disoccupazione giovanile sarà «centrale» nella campagna elettorale e «noi difenderemo» ciò che hanno fatto i governi Renzi e Gentiloni e che a Bruxelles, come a Berlino e Francoforte, considerano centrale per la credibilità dell'Italia. Resta però il dubbio che si voglia fare anche di questo referendum un uso tutto politico e che la sinistra - interna al Pd e non solo - pensa di usarlo per contrapporsi ai Dem come al progetto-Pisapia.
Si va avanti quindi - sostengono a palazzo Chigi - con i decreti attuativi (quasi tutti fatti) e con l'Agenzia per le politiche attive che deve ancora partire per i mancati accordi con le Regioni.