ROMA Eccolo dunque l'Italicum riscritto dalla Corte Costituzionale: salta il ballottaggio, resta il premio di maggioranza al partito che supera il 40% dei voti, non sono toccati capilista e plucandidature, ma viene fissato un limite importante: in caso di vittoria multipla, non si può scegliere il collegio in cui risultare eletto, ma interviene il criterio del sorteggio. Al termine di una camera di consiglio-fiume, che si conclude a pomeriggio inoltrato ben oltre quell'«ora di pranzo» indicata alla vigilia dal presidente Grossi, la Consulta lascia in campo una legge immediatamente applicabile.
IL COMUNICATO Un concetto, questo, che la Corte ha voluto esplicitare mettendolo nero su bianco nel comunicato ufficiale per non lasciare dubbi residui su un aspetto scontato per i giuristi, ma non per la politica. Diverse le reazioni dei legali che hanno impugnato la legge. «Siamo soddisfatti, il governo è stato sconfitto», dicono Felice Besotri, Michele Ricciardi e Michele Pennino: «Non si può andare a votare subito a meno che non si vada a votare con due leggi non omogenee su questioni essenziali, come soglie d'accesso e coalizioni». «Abbiamo ottenuto il minimo indispensabile in luogo del massimo che sarebbe stato possibile», dichiara invece Vincenzo Palumbo, secondo il quale però «si è aperta la strada a un precedente importantissimo per insorgere contro una futura legge elettorale che mettesse in discussione il diritto costituzionale al voto».
ASSETTO FUNZIONANTE Il dato di fondo è che i due sistemi, quello per le elezioni della Camera e quello delle elezioni del Senato, restano dissimili, ma lasciano un assetto funzionante, ha detto la Corte. La differenza maggiore è data dal premio, che l'Italicum, destinato a eleggere i deputati, mantiene, e il Consultellum, il sistema uscito dalla sentenza della Consulta sul Porcellum nel 2014 e valido per i senatori, non ce l'ha.
Ora la palla passa alla politica: la Corte ha fatto la sua parte. E lo ha fatto rigettando molte questioni sollevate sia dai ricorrenti sia dall'Avvocatura dello Stato, compresa una questione di fondo prospettata dalla difesa di Palazzo Chigi, che chiedeva il rigetto perché l'Italicum non è stato mai adoperato. No, la Corte è entrata nel merito.
Martedì sera, alle 17, dopo l'udienza pubblica, i 13 giudici presenti hanno appena cominciato ad affrontare la questione. L'esame è ripreso ieri mattina alle 9.30 ed è durato circa sette ore, con una breve pausa poco dopo mezzogiorno per mangiare un panino senza spostarsi dalla sala della camera di consiglio.
TOGHE DIVISE Si è proceduto per punti, spacchettando i temi: su nessuno c'era l'unanimità, ma la maggioranza era certa su tutti. Per questo si è scelto di non cristallizzare in un voto le decisioni, ma di certificare solo il risultato finale. L'idea, l'altra sera, di comunicare un orario, le 13-13,30, per la decisione, che poi è slittata al pomeriggio, ha innescato qualche cortocircuito e ha fatto pensare a divisioni nette. Non è stato così, il clima è stato sereno. L'idea di affrontare il tema dell'allineamento tra i due sistemi non è stata percorsa, se non per un punto: il ballottaggio. Qui c'erano opinioni diverse sulla possibilità di sorreggerne o meno l'abolizione ricorrendo all'argomentazione che il doppio turno non è presente per il Senato. Alla fine, da quanto emerge, si sarebbe scelto di non farlo: il ballottaggio va via principalmente perché non è prevista una soglia minima di voti per accedervi e questo può alterare la reale rappresentanza. Il resto, se vuole, lo farà la politica.
I PARTITI E la politica non perde tempo a dividersi sula sentenza che riapre la possibilità di andare al voto anticipato. A chiederlo è Matteo Renzi, che sottolinea l'immediata applicabilità del sistema che esce dalla sentenza, e con lui Matteo Salvini e Georgia Meloni. Mentre un passaggio parlamentare che renda omogeneo il nuovo Italicum al sistema del Senato lo chiedono in tanti, dal presidente del Senato Pietro Grasso, fino a Fi, ai partiti minori della maggioranza, passando per la minoranza Pd. A sorpresa anche M5S, pur dichiarandosi con Grillo per le urne subito, contemporaneamente con Di Maio si pone il problema di un passaggio parlamentare per estendere la legge della Camera anche al Senato. Con inevitabile (ma forse auspicato, viste le vicende giudiziarie capitoline...) allungamento dei tempi.
Con quale sistema si voterà
Due sistemi proporzionali, uno per la Camera e l'altro per il Senato. Con differenze tra loro non irrilevanti, a partire dal premio di maggioranza solo per Montecitorio seppur con una soglia (il 40%) difficilmente realizzabile. Ecco la fotografia del sistema elettorale all'indomani della sentenza della Consulta sull'Italicum. Il vecchio esperto di leggi e leggine elettorali Peppino Calderisi, una vita con Pannella e Berlusconi e ora centrista, scatta questo flash: «Siamo alla schizofrenia: alla Camera c'è il premio di maggioranza ma senza coalizione e al Senato c'è la coalizione ma senza il premio di maggioranza».
Ma a Calderisi è contrario alle urne subito e dunque guarda al vuoto del bicchiere. Gli altri, invece, e in particolare i renziani - sia pure in un contesto proporzionale che prepara governi di coalizione decisi dopo le elezioni - leggono la stringata sentenza di ieri della Corte Costituzionale come un buon trampolino per le proprie fortune elettorali. A Berlusconi, invece, ma anche ai partiti di media e piccola stazza, dai leghisti ai centristi, il combinato disposto delle due sentenze della Corte riserva carte meno brillanti.
AGUZZA LA VISTA Perché? Iniziamo dalle fondamenta: qual è la principale differenza fra le due leggi elettorali? La bocciatura del ballottaggio previsto dall'Italicum, ha reso entrambe le leggi proporzionali ma non pure. Al Senato per via delle soglie di sbarramento, alla Camera per il premio di maggioranza che scatta per la lista che supera il 40% dei voti assicurandole 340 deputati (il 54% del totale). E' una soglia altissima che nelle ultime politiche nessun partito dei principali paesi europei ha raggiunto. Tuttavia questo principio maggioritario consente al Pd di Renzi e ai 5Stelle di Grillo di disporre di una calamita per qualche alleanza elettorale (ad esempio per Renzi con la sinistra dell'ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia) e soprattutto per attirare elettori verso la propria piattaforma.
Il miraggio del 40%, infatti, sembra al momento raggiungibile solo da queste due forze. Lo spezzone di maggioritario rimasto sul palcoscenico italiano invece non pare poter funzionare né per Berlusconi se si presentasse da solo (oggi Forza Italia è accreditata del 12/14% dei voti) né in caso di accordo elettorale che darebbe vita ad un'unica lista di un centro-destra fermo sotto il 30%.
Per la verità i sistemi proporzionali emersi ieri rendono più credibili due possibili maggioranze inedite per la prossima legislatura: una fra Pd e Forza Italia alternativa a quella fra 5Stelle e Lega. Ma capire ora quali saranno i rapporti di forza fra i due assi e al loro interno appare francamente impossibile.
Anche perché la calamita del 40% non esiste al Senato dove non c'è premio. Ma questo non è il solo freno proporzionalista. Alla Camera ad esempio la distribuzione dei seggi nei vari collegi (che sono 100) avviene su base nazionale escludendo dal conteggio le liste che non superano il 3% dei voti. Al Senato, invece, gli spezzoni di Porcellum sopravvissuti prevedono non solo una distribuzione proporzionale dei seggi su base regionale ma con ben tre soglie di sbarramento: 20% per una coalizione; 8% per ogni singola lista e 3% per i partiti presenti nelle coalizioni.
Un meccanismo che sta creando non poche preoccupazioni nel centrodestra. Il proporzionale, si sa, spinge a presentarsi ognuno per proprio conto. Ma se Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d'Italia per il Senato si presentassero separatamente ovunque, in alcune Regioni potrebbero non superare la soglia dell'8% al Senato.
CAPILISTA BLOCCATI Tutto questo senza considerare l'enorme differenza fra le schede elettorali di Camera e Senato. Un elettore del Lazio, ad esempio, dovrebbe scegliere per il suo microcollegio della Camera in un elenco di 6 o 7 candidati elencati sotto il simbolo del suo partito. Per il Senato, invece, gli elettori dovrebbero poter scegliere fra 27 nomi (tanti sono i senatori eletti nel Lazio) per ogni partito. A complicare la vita all'elettore poi ci sono due tipi di preferenze diverse: alla Camera se ne possono dare due (alternando uomo/donna), al Senato una sola.
La sentenza di ieri della Consulta ha poi finito per offrire un'altra arma nelle mani di Matteo Renzi e degli altri segretari di partito: la conferma dei capilista bloccati alla Camera. Per Renzi e Grillo si tratta di una leva enorme poiché possono nominare 100 deputati ognuno (uno per ogni collegio). Al Senato, invece, i capilista non sono bloccati. Diventa senatore solo chi prende più voti di preferenza. Tutto questo se non dovesse cambiare nulla. Se invece i partiti troveranno un accordo per dare vita ad una legge elettorale unica gli scenari più accreditati danno il trasferimento dell'attuale legge della Camera anche al Senato oppure l'innesto delle coalizioni nei meccanismi elettivi della Camera.