FARINDOLA Il terremoto non c’entra, ma il disastro provocato dalla valanga che ha ucciso 29 persone e raso al suolo l’hotel Rigopiano forse poteva essere arginato. E quelle morti evitate. Bastava leggere «le evidenze» di quanto fosse problematico quel sito. Parola di Igor Chiambretti, il super esperto incaricato dalla Procura di ricostruire cause e dinamica su quanto avvenuto quel maledetto 18 gennaio. A partire, appunto, dall’eventuale incidenza delle scosse di terremoto che si verificarono quella mattina. Il geologo, torinese trapiantato a Trento, grande conoscitore dell’ambiente alpino e direttore tecnico dell’Aiva (l’associazione interregionale Neve e Valanghe finanziata dalle regioni e dalle provincie autonome dell’Arco Alpino, cui tre anni fa si è unita la Regione Marche) è uno dei tre consulenti incaricati dalla Procura, insieme con due ingegneri del Politecnico di Torino chiamati anche ad esaminare i materiali con cui è stato realizzato il resort. Ieri Chiambretti è stato a Rigopiano. Ecco quello che ha anticipato al Centro. Quanto hanno inciso le scosse sismiche della mattina del 18 gennaio sulla valanga del pomeriggio? «Sostanzialmente in nessun modo può avere inciso il terremoto. Non sembrano esserci correlazioni tra la sequenza sismica e gli eventi valanghivi. Anche tutte le altre valanghe che si sono distaccate quel giorno sono legate più alle caratteristiche della nevicata che al terremoto». Che tipo di valanga è stata quella di Rigopiano? «Non sembrerebbe tipica dell’Appennino. Sono valanghe con tempi di ritorno quarantennali, cinquantennali. Lo sapremo con precisione una volta che avremo completato i nostri studi». E su che cosa si basano, come si studia una valanga? «Si possono utilizzare diverse tecniche, tipo lo studio degli anelli di accrescimento degli alberi e la tipologia dei danni che le piante hanno riportato nella sequenza valanghiva, e in particolare i faggi secolari che mostrano secondo noi tracce di più di un evento avvenuto a distanza». Ma è possibile trovare ancora faggi che abbiano resistito alla forza delle valanghe? «È ancora difficile da dire, il faggio è una pianta abbastanza rustica che recupera abbastanza velocemente i danni da carico di neve e da valanga. Ci sono tracce evidenti che i forestali dovranno evidenziare. Abbiamo iniziato anche noi a raccogliere una serie di dati». Si poteva prevedere questo disastro? «È sempre difficile dirlo. Che ci fossero a livello regionale attività valanghive era già stato esplicitato dal bollettino valanghe. Il singolo sito è sempre molto complesso, a meno di non avere dati in loco. Forse poteva essere un sito da mantenere sotto una certa attenzione periodica, sapendo che era un sito problematico. E di evidenze che potesse essere un sito problematico ce n’erano». Che tempi di lavoro avete? «Tempi molto stretti. Adesso la polizia giudiziaria sta acquisendo una serie di documentazioni di vario tipo e appena disponibili le esamineremo. Dovremo fare una serie di analisi dal punto di vista strutturale dell’edificio e in relazione all’impatto che la valanga ha avuto sull’edificio. E poi i pm potranno procedere. Ma per analizzare la struttura dell’edificio bisognerà aspettare che la neve si sciolga perché metà della struttura è sotto la superficie nevosa». Prima ha detto che il 18 gennaio si sono registrati altri eventi valanghivi. Dove e di che tipo? «Tutta la dorsale del Gran Sasso e della Maiella ha avuto un’attività valanghiva, soprattutto lungo questo versante (del Gran Sasso ndr). Tutti i canali valanghivi esistenti si sono attivati e se ne sono aperti di nuovi». C’è da preoccuparsi? «La gran parte delle valanghe è avvenuta in territorio aperto, in mezzo ai boschi e non dovrebbero creare problemi. Invece, i canali principali che insistono sulle strade andranno adeguatamente monitorati con un piano di sicurezza per il rischio valanghe».