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Data: 10/02/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Italicum, la Consulta avverte il Parlamento: serve omogeneità. «Election day a giugno» Renzi rilancia, ma è solo

ROMA Dalle motivazioni della Corte Costituzionale alla sentenza che lo scorso 25 gennaio ha bocciato il ballottaggio della legge elettorale per la Camera, il cosiddetto Italicum, emergono cinque indicazioni molto chiare.
Primo: il parlamento dovrebbe trovare il modo di garantire maggioranze omogenee sia alla Camera che al Senato. Ciò detto, però, con le correzioni imposte dalla Corte all'Italicum sarebbe perfettamente legale andare a votare subito.
Secondo: il premio di maggioranza a chi supera il 40% «non è irragionevole» e dunque il principio maggioritario è salvo.
Terzo: il ballottaggio senza una soglia minima di consenso per le due prime liste lede il principio della rappresentatività perché consente a partiti anche relativamente piccoli di poter ottenere la maggioranza dei parlamentari.
Quarto: non è incostituzionale consentire ad un candidato di presentarsi in più collegi ma, poiché la carta dice che il voto deve essere uguale, non può essere il candidato a scegliersi chi rappresentare.
Quinto e ultimo nodo sciolto: la Consulta sottolinea che i capilista bloccati non violano la Costituzione per molti motivi. Innanzitutto perché le liste dei candidati sulla scheda sono brevi e l'elettore quindi è consapevole a chi va il suo voto ma anche perché la Costituzione assegna un ruolo ai partiti che si può esprimere anche attraverso la nomina di capilista presentati agli elettori. Insomma: è legittimo che i partiti formino una propria classe dirigente.
Sono queste le principali indicazioni che emergono dalle 99 pagine che spiegano la sentenza della Consulta sull'Italicum. Motivazioni non sorprendenti che tutto sommato contribuiscono poco al confuso dibattito politico sul quando e sul come andare a votare se non fosse per la sottolineature della necessità di garantire maggioranza omogenee alla Camera e al Senato. Dunque si rafforza la linea sostenuta dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di omogeneizzare gli attuali due sistemi elettorali in vigore per Camera e Senato.

IL REFERENDUM Le motivazioni della Corte seppelliscono un ballottaggio morto e sepolto con il referendum del 4 dicembre. Il ballottaggio, ifatti, dava al popolo il potere di decidere chi governa con un solo voto (come accade per i sindaci) ma è un sistema elettorale adatto a parlamenti composti da una sola Camera. L'opposto di quanto deciso dagli italiani col referendum.
Molto più interessanti le motivazioni della Corte sul premio di maggioranza che viene giudicato costituzionale salvando così il principio maggioritario. Dice la Consulta: «La soglia del 40% non è irragionevole, poiché bilancia la rappresentatività.....con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale».
La Corte insiste moltissimo sulla necessità di omogeneizzare i sistemi elettorali delle due Camere. «La Costituzione se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all'esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee».
Sulle candidature plurime infine la Corte chiede al parlamento di trovare un buon criterio e suggerisce, in mancanza di meglio, il sorteggio.
Va segnalato, infine, che ieri la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha avviato l'esame delle 18 proposte di legge di riforma elettorale.

«Election day a giugno» Renzi rilancia, ma è solo

ROMA «Le motivazioni della Consulta spostano poco o nulla...». A sera Matteo Renzi commenta con i suoi le argomentazioni della Corte costituzionale sulla legge elettorale. «Ormai la partita è tutta e solo politica», non riguarda la tecnicalità del sistema di voto. Ma gli interessi, i calcoli, le mire, le aspettative delle varie forze politiche. Che al momento non appaiono componibili. E soprattutto riguarda la guerra esplosa dentro al Pd, dove il segretario rischia di finire in minoranza e perdere sia la candidatura a premier che il timone del partito.
Che la situazione sia esplosiva (e la trattativa paralizzata) è dimostrato dalla cronaca di una giornata convulsa. Per ore il tam tam del quartier generale del Nazareno ha indicato una rotta univoca: dimissioni di Renzi lunedì in Direzione e congresso subito, tra maggio e aprile, «per vedere con chi sta la nostra gente, se con Matteo o con Bersani...». Poi, soltanto dopo, l'apertura di un tavolo per la nuova legge elettorale. Obiettivo: trasferire l'Italicum e il premio di maggioranza anche al Senato (inclusi i capilista bloccati). Una road map che, implicitamente, spostava le elezioni al 2018.

LA GUERRA INTERNA Ora dopo ora però la situazione interna al Pd si è ingarbugliata parecchio. E la road map ha cambiato itinerario e sbocco. Per un congresso dem che non diventasse la notte dei lunghi coltelli «serve un patto tra galantuomini», hanno frenato e spiegano al Nazareno. Patto che è ben lungi dall'essere stretto: mentre infatti i renziani dicevano «assise domani», la minoranza bersaniana riunita per tutto il giorno alla Camera, ha concluso i lavori al grido: «Niente congresso, prima le amministrative». «Altrimenti», ha spiegato Roberto Speranza, «il tutto si trasformerebbe in una gazebata».
Renzi, a quel punto, ha cominciato a vederci più chiaro. Ha fiutato il trappolone. Ha capito che i sussurri e le grida dei giorni scorsi su un possibile cambio di maggioranza interno al Pd era fondate, con il duo Franceschini-Orlando al lavoro. A tarda sera poi è arrivata «la prova provata»: in un'intervista all'Huffington, Andrea Orlando di fatto è candidato alla segreteria, spiegando che «al Pd occorre una Bad Godesberg programmatica», che ci vuole un partito e «un percorso che parli al Paese per i prossimi 20 anni». E, insomma, «bisogna costruire un nuovo Pd», altrimenti il rischio è che «salti tutto».
Quando c'era il Pci, Bad Godesberg veniva citata per spingere i comunisti a chiudere con l'Urss e a diventare una forza socialdemocratica (Giorgio Napolitano se li ricorda ancora gli inviti e le pressioni per recarsi nella cittadina tedesca), rispolverata adesso significa che, secondo Orlando, il Pd renziano non è all'altezza delle sfide: oltre alla rottamazione ci vuole la costruzione, etc. Da qui la contromossa del Nazareno: una vera e propria controffensiva. «Election day a giugno, mille comuni al voto, Sicilia e elezioni politiche, altro che congresso», ha scritto in serata su Tweetter l'arci-renziano Matteo Ricci, responsabile enti locali. E Dario Parrini, potente segretario regionale della Toscana, ha spiegato: «Non capisco quelli che prima volevano il congresso, poi noi diciamo ok e non lo vogliono più. E' chiaro che a loro serve solo per indebolire, e possibilmente cambiare, segretario. Ma c'è ancora tutto lo spazio per votare a giugno».

LOTTA PER LA SOPRAVVIVENZA Si riapre dunque la finestra del voto anticipato. Ma il premier Paolo Gentiloni da Londra invoca «stabilità» e assicura essere, il suo governo, «nella pienezza dei poteri». E i sempre più numerosi anti-renziani preparano un trappolone, architettato così: per andare alle assise anticipate Renzi deve dimettersi, a quel punto si va all'assemblea nazionale che ha due strade. La prima: confermare le dimissioni e avviare le procedure congressuali (iter pacifico e di routine). La seconda: eleggere un nuovo segretario a maggioranza (iter bellicoso). Le manovre dei giorni scorsi, le riunioni a ripetizione delle varie correnti, il gran parlare di assi fra Franceschini e Orlando, e per ultimo la scesa in campo esplicita del Guardasigilli, hanno trasformato le supposizioni in realtà concreta e percorribile. Renzi si dimette? Ecco pronta una nuova maggioranza che elegge un nuovo segretario, archiviando l'ex premier. Da qui il richiamo, in serata, di Renzi all'election-day in giugno e il rinvio implicito del congresso. C'è da capire se ci riuscirà. O se prima di lunedì non cambierà di nuovo strategia. La partita è delicata, è ormai una lotta per la sopravvivenza.

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