ROMA Avanti con le privatizzazioni non solo per ridurre il debito pubblico, ma anche per aumentare l'efficienza delle società in cui è presente lo Stato. Di fronte a quella che è ormai un'offensiva aperta di alcuni settori del Pd contro il programma di dismissioni del governo, il ministro dell'Economia mette le mani avanti; e lo fa con più energia rispetto ad un altro possibile punto controverso, quello della manovra correttiva da realizzare senza il ricorso a nuove tasse e quindi nemmeno ad aumenti delle accise. In quest'ultimo caso infatti si tratta di trovare eventualmente soluzioni alternative per alcune centinaia di milioni, grandezza rilevante ma non colossale nel bilancio pubblico.
Sulle privatizzazioni invece la partita è più strategica: in ballo ci sono la necessità di dare un segnale chiaro all'Europa ed agli investitori internazionali sulla discesa del rapporto debito/Pil, ma anche - dal punto di vista di Padoan - il rischio di tornare ad una concezione statalista che almeno a parole il centro-sinistra aveva abbandonato dai primi anni Novanta.
LA SVOLTA Quella svolta invece il ministro dell'Economia, nonché consigliere economico dei premier di centro-sinistra già in quella stagione, non l'ha rinnegata. «La nostra idea non è cambiata» ha spiegato ieri parlando durante la presentazione del rapporto Ocse, «l'obiettivo delle privatizzazioni non è solo far cassa ma anche quello di aumentare l'efficienza manageriale delle imprese che sul mercato subiscono stimoli importanti». Le voci più che dubbiose uscite dal Pd nei giorni scorsi non sono malumori isolati. Aveva iniziato Giacomelli, che pure fa parte del governo come sottosegretario alle Comunicazioni, esprimendo perplessità sulla nuova tranche di Poste: ieri le ha confermate aggiungendo un riferimento ironico ai «capitani coraggiosi» ovvero alla privatizzazione di Telecom gestita dal governo D'Alema e bersaglio polemico, in questi giorni, anche di Matteo Renzi. Con Giacomelli si era schierato il presidente del Pd Orfini mentre il ministro dei Trasporti Delrio i dubbi li ha espressi e li ha confermati ieri sull'operazione Fs: «Va fatta una riflessione profonda - ha osservato - il servizio universale non lo voglio sottoporre al mercato».
Per Padoan si tratta di timori infondati, perché «le privatizzazioni non tolgono lo Stato dal posto di guida» e quindi non cambiano «obiettivi strategici e priorità». In altre parole non c'è il rischio di conseguenze sull'occupazione o sui servizi per i cittadini. Dunque il Tesoro è intenzionato a procedere con un programma il cui valore è fissato per quest'anno allo 0,5 per cento del Pil, circa 8 miliardi, dopo che lo stesso obiettivo è stato largamente mancato nel 2016: alla fine nel carniere del Mef c'erano introiti da dismissioni pari solo allo 0,1 per cento del Prodotto lordo.
VOLATILITÀ Il rinvio delle operazioni in cantiere su Poste e Fs, dopo la cessione del 46,6 per cento di Enav e alcuni incassi sul fronte degli immobili, è stato giustificato dallo stesso ministro, qualche giorno fa in Parlamento «a causa dell'elevata volatilità dei mercati». Adesso invece tutte le Borse mondiali sembrano avere il vento in poppa, anche sull'onda delle aspettative per la politica economica degli Usa di Donald Trump e dunque anche per il Tesoro è il momento giusto per tornare in pista.
E dietro il braccio di ferro su Poste e Fs si sta scaldando la partita sulle nomine
ROMA Nel carniere del Tesoro, per il 2017, ci sarebbero due grandi operazioni di privatizzazione: le Poste e le Ferrovie. Il condizionale è d'obbligo. Perché la linea del ministero dell'Economia, di non retrocedere su questo fronte, ormai non è condivisa da una parte del Partito democratico e da esponenti dello stesso governo Gentiloni. Non passa giorno senza che il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli, esprima i suoi dubbi sulla vendita di una seconda tranche delle Poste. Il ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, inizia a mostrare una certa freddezza all'ipotesi di quotare in Borsa quest'anno le Frecce, i treni ad alta velocità delle Ferrovie dello Stato. Sia Giacomelli che Delrio sono "renziani". E in fin del conti è stato lo stesso segretario del Pd, nella direzione di lunedì scorso, a ricordare a Padoan, i fallimenti di alcune precedenti operazioni, come quella di Telecom. In realtà è da tempo sulla gestione delle società di Stato ci sono divergenze. Le Ferrovie, per esempio, sono promesse spose dell'Anas, la società delle strade, che avrebbe dovuto essere fusa in quella dei treni prima dello sbarco sul mercato.
IL MECCANISMO Per mesi i vertici dei due gruppi, insieme a Delrio, avevano studiato un meccanismo per far uscire l'Anas dai conti dello Stato, cambiando il meccanismo di finanziamento della società. L'idea era di passare dai trasferimenti diretti dello Stato, ad un sistema indiretto che trasferisse una quota delle accise, senza aumentarle, alla società. Il Tesoro si è opposto, spingendo per l'uso di un altro metodo di finanziamento, quello della «vignette», una sorta di bollo da far pagare agli utilizzatori delle strade statali. Le società attendevano anche un'altra norma necessaria alla fusione, lo stanziamento di 700 milioni per sterilizzare l'enorme contenzioso che Anas ha in pancia. Ma i mesi sono passati invano senza che questi nodi siano stati sciolti. Sulle Poste il discorso è simile. Il Tesoro ha confermato la privatizzazione. Giacomelli l'ha frenata. «Il punto sostanziale», ha spiegato in un'audizione in Senato, «è che bisogna rafforzare il ruolo di alcuni poli pubblici per puntare allo sviluppo, riducendo il debito». Posizioni diametralmente opposte. La questione, tuttavia, è anche un'altra. Questa "divaricazione" tra Padoan e i renziani del governo, arriva in un momento decisamente delicato per la vita delle società di Stato: la stagione delle nomine pubbliche. Prendiamo le Poste. L'attuale amministratore delegato, Francesco Caio, è l'uomo che ha portato la società in Borsa e che sta lavorando alla seconda tranche. Se il progetto cambia, è probabile che dovrà cambiare anche il capo azienda.
I RINNOVI Non è l'unica poltrona in bilico. Anche quella di Leonardo-Finmeccanica, occupata attualmente da Mauro Moretti, è in traballante dopo la condanna del manager per la strage di Livorno. Senza contare che sarà da valutare anche l'impatto del rinvio a giudizio di Claudio Descalzi, il numero uno dell'Eni, per le presunte tangenti in Nigeria. Questo significa che l'idea di confermare in blocco tutti i manager nominati da Renzi inizia a vacillare. E anche questa sarebbe una delle ragioni del crescente nervosismo della componente renziana. Anche perché, formalmente, la composizione delle liste spetta al Tesoro che, per norma, dovrà affidare l'incarico ad un cacciatore di teste per valutare l'operato degli attuali manager e in caso di cambi indicare delle terne di nomi tra i quali scegliere. Tutta questa procedura, tre anni fa, si era svolta più a Palazzo Chigi che a via XX settembre sotto la supervisione di Luca Lotti. Adesso in campo, ci sono anche altri attori. Oltre a Padoan, a molti non è sfuggito che tra le deleghe attribuite al ministro per il Sud, Claudio De Vincenti, ce n'è anche una secondo cui tra i suoi compiti c'è quello di assistere «il presidente del Consiglio ai fini dell'esercizio del potere di nomina alla presidenza di enti, istituti o aziende di carattere nazionale, di competenza dell'amministrazione statale».