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Pescara, 24/07/2024
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Data: 19/02/2017
Testata giornalistica: Il Centro
I veleni di Bussi - «Acqua avvelenata. Pagheranno i danni». Gerardis dopo la condanna: ora al lavoro per ottenere i risarcimenti «I camion mettevano i rifiuti sotto terra»

PESCARA «Io ce la metterò tutta e, di solito, sono abbastanza testarda». Cristina Gerardis, avvocato dello Stato nel processo Bussi e ora anche direttore generale della Regione, guarda già avanti: dopo le 10 condanne per il disastro della discarica di Bussi sancite dalla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, Gerardis disegna le strategie per la prossima battaglia legale: quella per ottenere il risarcimento dei danni. L’ultimo scontro, il più duro, perché in ballo ci sono milioni e milioni di euro da investire nella bonifica dei siti contaminati. «Ora dobbiamo andare a prenderci questi soldi», dice Gerardis. E senza perdere tempo: «Perché il tempo che passa fa male a tutto», dice lei, «fa male all’ambiente perché, a Bussi, la contaminazione aumenta giorno dopo giorno; fa male alla fiducia delle persone che aspettano risultati dopo una sentenza di condanna; fa male alle istituzioni che hanno il dovere di attivarsi subito». Dopo le assoluzioni del 19 dicembre 2014 a Chieti, il quadro è mutato e la Corte aquilana ha disposto anche provvisionali da quasi 4 milioni per le parti civili. Avvocato, cosa è cambiato tra la prima e la seconda sentenza su Bussi? «Una sentenza ribaltata. E in un processo così, la nostra grande soddisfazione è che la sentenza ha affermato e riconosciuto l’avvelenamento delle acque sotterranee, una tesi che sia la procura generale che l’Avvocatura dello Stato hanno sostenuto. Adesso, c’è stata una giusta interpretazione del reato di avvelenamento: secondo la Corte dell’Aquila, anche la falda è meritevole di tutela penale, una cosa che non era stata sancita in primo grado. La Corte l’ha riconosciuto nella forma colposa e, quindi, ne ha dichiarato la prescrizione, ma dal punto di vista civilistico, è un fatto fondamentale perché apre la strada al risarcimento dei danni. Questa sentenza diventa uno strumento importantissimo per le parti civili nell’ottica del territorio e, quindi, della bonifica dei siti contaminati: è stato riconosciuto il diritto della parte pubblica al ripristino ambientale. La Corte ha riconosciuto provvisionali ai Comuni interessati e un milione di euro all’Aca: significa che la Corte ha esaminato il pregiudizio arrecato alla risorsa idrica, proprio quell’acqua che è stata sottratta agli abruzesi con la chiusura dei pozzi Sant’Angelo». Come è possibile un ribaltamento del genere? «A un osservatore estraneo dei tecnicismi del diritto, può apparire strano ma è la dinamica del processo: noi abbiamo impugnato la sentenza di primo grado avendo fiducia in una possibile rivisitazione. E ho avuto la prova che abbiamo fatto bene. La sentenza di primo grado aveva interpretato diversamente il reato di avvelenamento escludendo la falda e aveva negato anche livelli di contaminazione alta». Il principio giuridico che è stato ristabilito recita che «chi inquina paga»: e ora? «Sembra un principio banale ma si è sancito che un soggetto che lede l’integrità delle matrici ambientali e delle risorse naturali deve riportare i luoghi allo stato precedente all’inquinamento. Ora bisognerà individuare il responsabile civile, la Edison, a cui far risalire gli imputati, il soggetto che dovrà risanare quell’area e dare il giusto risarcimento alle parti civili danneggiate». Si apre una nuova battaglia per i soldi? «Sicuramente, ma con una sentenza così abbiamo uno strumento forte per persuadere il responsabile civile. Ci saranno passaggi diversi rispetto al processo penale. Ma bisogna attivarsi subito: con un’affermazione così in sede penale, non si può più aspettare». Lei, durante il processo di secondo grado, ha presentato nuovi documenti in base ai quali l'inquinamento non si ferma ma continua e si allarga: questi atti sono stati determinanti? «Gli studi sono stati dichiarati inutilizzabili ai fini della decisione in quanto formati in un’epoca successiva alla scelta del rito abbreviato da parte degli imputati. Però, dal punto di vista civilistico, saranno fondamentali perché sono la fotografia attuale della contaminazione e il ministero dell’Ambiente ha già richiesto all’Arta e all’Ispra di attivarsi per ulteriori controlli. Dai documenti che ho depositato si desume che la contaminazione è in aumento anche al di fuori della discarica e si propaga a matrici ambientali in superficie come scoperto nella corteccia degli alberi». E nella famosa mela avvelenata trovata in un terreno di Bussi, giusto? «Sì, aver trovato una mela avvelenata ha fatto arrabbiare le difese». Il caso approderà in Cassazione: ha il timore del terzo grado di giudizio? «La sentenza dell’Aquila mi sembra equilibrata, e tanto, sotto il profilo penale. Anche se non ha riconosciuto il disastro doloso, ha riconosciuto la colpa con previsione. E sempre manifestando un grande equilibrio, la Corte ha differenziato le posizioni degli imputati mentre, in primo grado, questo non era stato fatto». La sentenza di primo grado era stata una doccia gelata, cosa ha pensato prima che fosse letta la sentenza di appello? «Ero pessimista ma solo per carattere. Però, ci tenevo tanto a questo processo: all’inizio, per me era un processo come un altro, poi, mi sono appassionata ai temi ambientali e il mio legame con l’Abruzzo, grazie all’incarico in Regione, si è approfondito: pertanto, il mio stato d’animo era condizionato da questo coinvolgimento affettivo. Poi, dopo il pessimismo, la gioia e la soddisfazione sono state ancora maggiori». Se qualcuno si aspetta che a Bussi cambierà qualcosa improvvisamente, resterà deluso. Ma ora cosa accadrà? «Sarà compito delle istituzioni, a partire dal ministero dell’Ambiente, dalla Regione e dei Comuni coinvolti, con l’appoggio delle associazioni ambientaliste, avviare le ulteriori fasi. Auspico che non prevalga il contenzioso su tutto ma che, finalmente, emerga una tendenza diversa: cercare un punto di incontro per passare subito alla bonifica, è la cosa più importante». Azzardare tempi è impossibile? «Sì, ora è impossibile. Ma le azioni vanno fatte nell’immediato. Perché il tempo che passa fa male a tutto: fa male all’ambiente perché, a Bussi, la contaminazione aumenta giorno dopo giorno; fa male alla fiducia delle persone che aspettano risultati dopo una sentenza di condanna; fa male alle istituzioni che hanno il dovere di attivarsi subito. La Regione aveva chiesto mezzo miliardo di euro di risarcimento: ora dobbiamo andare a prenderci questi soldi che saranno usati per la salute dei cittadini e il welfare».

«I camion mettevano i rifiuti sotto terra» La testimonianza di un residente fu la svolta dell’indagine nel 2007: ecco la deposizione alla forestale

PESCARA Il camion che scaricava rifiuti sotto terra a Bussi l’aveva visto quando era ancora un ragazzino e vendeva gli abbonamenti per gli autobus del compare davanti alla stazione. Arrivò grazie al ricordo di un residente la svolta nell’inchiesta sulla discarica di Bussi: fu lui il primo a indirizzare gli agenti della forestale in località Tre Monti, sotto il viadotto dell’A25 per Roma. Senza quella testimonianza, forse, i veleni di Bussi sarebbero rimasti un segreto chissà fino a quando. Perché, fino al 13 dicembre del 2006, l’indagine riguardava le tracce di sostanze inquinanti trovate nei pozzi dell’acqua potabile di Colle Sant’Angelo a Tocco da Casauria ma nessuno aveva idea da dove venisse quella contaminazione. Poi, arrivò l’imbeccata del testimone: un racconto «preciso» affidato agli uomini di Guido Conti, all’epoca comandante della forestale di Pescara e ora al vertice del comando dell’Umbria con il grado di generale. Un ricordo che riporta agli anni Settanta, in una Bussi in cui contava solo il lavoro e in cui il rispetto per l’ambiente non esisteva: il testimone disse che aveva visto i «camion» scaricare i veleni della chimica in «buche» nella terra. Ecco la deposizione che cambiò l’indagine: «Negli anni 1969/70 frequentavo la scuola e aiutavo il mio compare, proprietario di autobus di linea, a fare gli abbonamenti e spesso mi trovavo alla stazione di Bussi Officine, in attesa delle coincidenze tra l’autobus e i treni. Durante queste attese, mi è capitato di vedere, almeno 4 o 5 volte, a distanza di vari giorni una dall’altra, nell’area prospiciente la stazione, verso il fiume Pescara, un camion modello Fiat 642 di colore rosso, di proprietà della vecchia Montecatini, la fabbrica di sostanze chimiche di Bussi Officine, ora Solvay, che trasportava e depositava all’interno di buche realizzate in precedenza, dei blocchi di cemento delle dimensioni di circa un metro cubo, mediante l’utilizzo di una gru di marca Orming a tre ruote, anch’essa di proprietà della vecchia Montecatini». Poi, disse ancora il testimone, le buche venivano ricoperte «tramite l’utilizzo di una ruspa. Ricordo che due degli autisti dei mezzi utilizzati per il trasporto e reinterro dei contenitori in cemento, sono attualmente deceduti». Un racconto di «grande precisione» secondo i pm Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli che subentrarono al primo magistrato che aprì il fascicolo, Aldo Aceto. Per la procura, è una testimonianza decisiva: «Come dire: andate a guardare nel sito dell’area Montedison in Bussi perché tutti sanno che lì nel passato sono stati recapitati prodotti derivanti da produzioni chimiche pericolose», così hanno detto Mantini e Bellelli nella requisitoria davanti alla Corte d’Assise di Chieti alla vigilia della sentenza che, in primo grado, ha assolto i 19 imputati dal reato di avvelenamento delle acque. Dopo la testimonianza, la forestale andò a Tre Monti e dopo i primi colpi di ruspa una nuvola di fumo si sprigionò dal terreno: erano i veleni nascosti. Anche un altro testimone, ex dipendente del polo chimico, raccontò «di aver visto dei camion e un trattore tenere sempre il terreno pulito» nella zona della discarica. E riferì ai pm di «una scena delicatissima» a detta della procura: «Una sera ho visto una lepre con un paio di leprotti, sono passati lungo il recinto e andavano a bere al fiume. E quella sera ho visto il piccirillo della lepre, ha cominciato a mangiare l’erba che stava dentro al recinto e si è morto, è rimasto là, e la mamma non lo voleva lasciare, però dopo quando ha visto che mi sono avvicinato a vedere che era successo, dopo è scappata. Capito».

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