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Data: 19/02/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Pd, scissione a un passo. Rischio instabilità in aula e commissioni. La rottura può far traballare l'esecutivo

ROMA «Quando ti vesti seriamente ti rispondo». Tradisce un certo nervosismo Pier Luigi Bersani mentre, seduto in platea, liquida l'ex Jena Enrico Lucci, travestito da soldato dell'Armata rossa, con tanto di baffoni e pastrano. Siamo in pieno carnevale ma nessuno ha voglia di scherzare: la convention della minoranza Pd è una cosa seria, la scissione è dietro l'angolo, la tensione è allo zenit.
TRINITA' DEM
Enrico Rossi, Roberto Speranza e Michele Emiliano, gli anti-Renzi candidati alla segreteria, hanno stretto il patto della trinità. Prenotato per i loro aficionados 11 pullman, fatto allestire all'esterno del Teatro Vittoria un maxischermo perché dentro non ci si sta tutti. Qualcuno è partito convinto che al ritorno nulla sarebbe stato più come prima. Che il suo leader di riferimento avrebbe passato il Rubicone. Invece alla fine è ancora tutto in discussione: nessuno stacca la spina, gli scissionisti non strappano «è tutto nelle mani di Matteo Renzi, sta a lui decidere se vuole l'unità o spaccare», è il refrain
Fuori la folla. Dentro la macchina del tempo: tesserati che cantano bandiera rossa mente scorrono le immagini di Guerre stellari. Un mix di identità ancora confuse. D'Alema è seduto nelle prime file e ascolta. «Se Renzi telefona commenta a margine per dire che lui è d'accordo con quello che gli si propone, naturalmente questo apre un processo politico che porta verso un congresso nei tempi ordinari. Se invece vuole tirare dritto per la sua strada, è chiaro che noi non possiamo accettare questa prepotenza», chiosa D'Alema, che aggiunge la rottura non è colpa mia.
La sua presenza non oscura i tre organizzatori della kermesse. Anzi. Enrico Rossi ringrazia «i fratelli maggiori, come Bersani ed Epifani, che sono qui con noi e hanno scelto di non parlare per lasciare spazio agli altri». Il governatore toscano aveva prenotato il teatro di Testaccio per lanciare la sua candidatura alla segreteria, all'ultimo istante ha esteso l'invito ai competitor. Elenca gli errori della gestione renziana, «l'eccesso di moderazione», la «contiguità con certi poteri», perché, dice Rossi, «se esalti Marchionne poi non ti puoi meravigliare se un precario ti sente distante».
Tornano le parole care alla sinistra, le accuse al «capitalismo mordi e fuggi». Avverte Rossi: «Se Renzi vuole fare come Macron in Francia, costruire una forza neo reaganiana, noi non ci stiamo». L'obiettivo è arrivare alla conferenza programmatica, per poi sfidare in campo aperto Renzi sui referendum della Cgil, perché «abbiamo bisogno di un partito partigiano».
IL POVERINO
Speranza rivela alla platea di aver avuto con Renzi e parte un piccolo coro di disapprovazione. «Segretario, gli ho chiesto - riferisce l'ex capogruppo alla Camera - ma la vediamo solo noi questa scissione che c'è già stata?». «Solo con un congresso vero continua Speranza possiamo tenere insieme il partito, altrimenti diventa una rivincita del capo».
Michele Emiliano, il terzo della trinità scissionista, sposa l'ironia, arriva a scusarsi per aver sostenuto Renzi. «Però l'ho convinto per telefono a sostenere Gentiloni fino al 2018», sottolinea. «Ma deve dirlo Renzi pubblicamente», replica Bersani.
E c'è un primo abbozzo della cosa, del nuovo partito che nascerà da una scissione che ai più sembra già consumata, un nuovo centrosinistra, non una casa chiusa, stretta e piccola.
È l'unica concessione ai fuorisciti di Sinistra Italiana rappresentati ieri da Massimiliano Smeriglio, il vice presidente della Regione Lazio, impegnato in un lavoro di ricucitura. L'idea di un nuovo Ulivo. La corda si sta per spezzare ma una exit strategy non è stata ancora decisa. La situazione è in divenire, così che fatalmente i riflettori tornano su Bersani, che accusa di nuovo Renzi di essere l'unico responsabile dello strappo.
Orfini rilancia l'idea della conferenza programmatica già fatta propria da Orlando e Franceschini. Oggi all'assemblea nazionale l'ex segretario ci sarà, D'Alema no. Ma forse è tutto già deciso. Renzi non commenta, lascia che a farlo sia il numero due Lorenzo Guerini: «Toni e parole che nulla hanno a che fare con una comunità che si confronta e discute, gli ultimatum sono irricevibili». Oggi la parola fine? All'ex premier la parola.

Rischio instabilità in aula e commissioni La rottura può far traballare l'esecutivo

ROMA Gentiloni ha scelto la linea cauta, stamattina non interverrà all'Assemblea dem ma è tutto il governo, compreso lo stesso premier, ad essere convinto che l'esecutivo difficilmente possa reggere una scissione del Pd. «Farla in nome del presidente del Consiglio sarebbe assurdo», è la linea del Nazareno.
D'altra parte i numeri parlano chiaro: i deputati che fanno capo alle minoranze sono 40, i sentatori 21. Non è possibile oggi stabilire se in caso di scissione usciranno tutti compattamente dal Pd, ma è evidente che la formazione di due gruppi parlamentari diversi comporterebbe un rimescolamento delle carte che con ogni probabilità costringerà il governo a richiedere la fiducia. In queste ore comunque, tutti gli equilibri interni alle molte correnti del Pd sono in fibrillazione è probabile che altri parlamentari oggi nella maggioranza renziana aderiscano alla possibile scissione mentre alcuni della minoranza non lo facciano. Resta da capire poi il ruolo dei parlamentari in uscita da Sinistra Italiana guidati da Scotto alla Camera e da De Pretis al Senato ma anche le possibili ripercussioni sulle giunte di Toscana e Puglia. Contatti sarebbero già in corso tra gli scissionisti e i parlamentari vendoliani e quelli vicini a Pisapia.
Una parte dei deputati legati alla corrente lombarda di Martina è poi scettica sulla linea renziana e sulla stessa lunghezza d'onda ci sono molti orlandiani. Fibrillazioni anche tra i centristi: alcuni senatori di Ncd meditano il ritorno alla casa madre mentre Ala' è sempre più in subbuglio.
Se la casa sul serio dovesse bruciare, il rischio è che crolli tutto. Lo mette in chiaro Orfini, lo fa intendere Guerini che chiede di tenere il governo fuori dalla contesa. La minoranza punta a tenerlo in piedi fino al 2018, ma la tesi prevalente nel Pd è che una rottura darebbe facile pretesto a chi preferirebbe andare alle urne piuttosto che galleggiare. «E' chiaro che si determinerebbe il gioco del tutti contro tutti. Nessuno controllerebbe più nulla, è l'allarme generale nella maggioranza, «Ognuno si terrebbe le mani libere. Si andrebbe incontro ad una fase di instabilità totale ed è chiaro - sottolinea un renziano di ferro - che sarebbe più facile andare al voto».
La linea ufficiale di Renzi però è massimo sostegno a Gentiloni ma - aggiungono le stesse fonti - «sarà la palude a determinare il precipitare della crisi se veramente ci sarà una scissione». Chi non ha paura di una frattura all'interno del Pd raccomanda calma: «Se vanno via dovranno diventare piu' responsabili. Dovranno far passare ogni decreto o singolo emendamento. La verità argomenta un big' dem - è che se vogliono farci male restano e puntano a logorarci».
GLI EQUILIBRI
Ma nel gioco del rompete le righe potrebbero saltare tutti gli equilibri interni al Nazareno: Il caos ci sarebbe soprattutto nelle commissioni. Con la nascita di nuovi gruppi parlamentari si andrebbe ad una ridistribuzione dei posti e il Pd perderebbe dai due ai tre membri per ogni organismo parlamentare.
Ma l'incognita maggiore è legata all'iter dei provvedimenti. In Commissione Ambiente alla Camera c'è il decreto terremoto; in Parlamento sono in arrivo due decreti legge varati dal Cdm su iniziativa del ministro Minniti: quello sulla sicurezza urbana dovrebbe andare al Senato, mentre la parte riguardante l'immigrazione a Montecitorio.
A palazzo Madama ad inizio marzo è previsto l'approdo in Aula della riforma del processo penale per non parlare della manovra bis. La consapevolezza tra i ministri è che si possa riaprire la finestra delle elezioni anticipate a giugno. «Perchè riflette un esponente del governo a settembre è troppo complicato. Un governo non può nascere in così poco tempo, con una legge di stabilità da varare».
Dunque o sul serio si arriva al 2018 oppure soprattutto se il Colle dovesse constatare una situazione di palude si riapriranno i giochi per le urne entro l'estate. Per non parlare dell'impossibilità a definire una nuova legge elettorale. «Alla fine succederà che andremo alle elezioni - argomenta un altro fedelissimo di Renzi - con il Consultellum. Se il Pd si spacca il presidente della Repubblica non potrà non tenerne conto».

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