ROMA Il dado è tratto. Il Pd, salvo colpi di scena sempre possibili ma assai improbabili, ha consumato la sua scissione alla fine di una giornata drammatica. O forse no, se è vero che in tarda serata gli uomini più vicini a Michele Emiliano avvertono che c’è tempo fino a martedì. Ma per i renziani l’epilogo della giornata più lunga del Pd era già scritto. «Avevano già deciso di uscire», dicono attribuendo a Massimo D’Alema la regia della rottura. In serata, dopo l’Assemblea Pd, una nota firmata da Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza, i tre leader della minoranza, denuncia: «Abbiamo atteso invano delle risposte è ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la scissione». E in effetti Matteo Renzi non ha concesso nulla alle richieste della sinistra del partito per restare uniti. Non un congresso in tempi ragionevoli, non l’avvio di una assemblea programmatica per avviare il confronto interno sui tempi che hanno diviso vertice e militanti come il jobs act e la scuola. «Fuori ci prendono per matti, discutiamo ma poi rimettiamoci in cammino», dice Renzi. «Scissione è una delle parole del vocabolario politico, peggio c’è solo la parola ricatto, un grande partito non può essere fermato dal ricatto di una minoranza», aggiunge. Pochi minuti prima Matteo Orfini, presidente del Pd, annuncia ai 637 delegati su 1.000 arrivati all’Hotel parco dei Principi di aver ricevuto le dimissioni formali di Matteo Renzi da segretario, passo formale e decisivo per indire i congresso del partito che nelle intenzioni dell’ex premier deve chiudersi con le primarie il 9 aprile, in tempo per la campagna elettorale delle amministrative. Primarie nelle quali Renzi spera di avere un nuovo plebiscito popolare per la segreteria e per tornare a palazzo Chigi. Sabato al teatro Vittoria sono risuonate la parole di Bandiera Rossa. Qualcuno ha ipotizzato un passo indietro di Renzi per evitare la scissione. «C’ho pensato», assicura l’ex premier mentre dalla sala i fan rumoreggiano sgomenti. «Un momento, l’ho solo pensato. Non si può chiedere a una persona di non candidarsi perché solo questo evita la scissione, avete il diritto di sconfiggerci non di eliminarci». Quanto alla minoranza che rivendica le sue radici a sinistra anche su questo Renzi è netto: «Non avere il copyright della sinistra, non è come chi dice “capotavola è dove siedo io», dice con evidente frecciata a D’Alema. «La parola che propongo oggi è rispetto», azzarda. La strategia renziana, studiata nei dettagli, prevede che prendano la parola in assemblea i dirigenti di provenienza Ds. Dopo Guglielmo Epifani che prende la parola a nome di tutte le minoranze ed è durissimo, sfilano sul palco Teresa Bellanova, ex sindacalista Cgil, Piero Fassino e Claudio De Vincenti. È Walter Veltroni però a scaldare la platea. E il suo è un appello da padre nobile del Pd. «Ai compagni dico che il Pd ha bisogno di voi» dice Veltroni ricordano i danni che le scissioni a sinistra hanno provocato non solo alla sinistra ma al Paese. Un ritorno ai Ds e alla Margherita, sarebbe un ritorno al passato non al futuro, avverte Veltroni. Per l’ex segretario c’è una standing ovation, ma le parole di unità che pronuncia cadono nel vuoto e il copione degli interventi segue il filo prestabilito. Tocca a un altro segretario, Dario Franceschini, insistere per una pausa di riflessione. «Non decidete ora, c’è ancora tempo» chiede alla minoranza Franceschini, alleato di Renzi, ma impegnato con Delrio a cercare di evitare strappi dolorosi. A lui, alle sue capacità di mediazione guarda ancora una parte di minoranza convinta che ancora non sia detta la parole fine. E una mediazione prova ancora Andrea Orlando. Il ministro della Giustizia chiede la convocazione di una conferenza programmatica. E comunque avverte: l’uscita della minoranza non sarà indolore, il Pd non sarà più quello di prima. Per ora però Matteo Renzi tira dritto. Il leader dem non replica all’apertura di Emiliano che spiazza la sinistra che teme si sfili, ma irrita i renziani. La tabella di marcia è già segnata. Martedì la direzione per le date del congresso. La cavalcata di Renzi per riprendersi il partito comincerà dove il Pd è nato, al Lingotto, il 10 e l’11 marzo. Poi la campagna si sposterà in giro per l’Italia con l’obiettivo di dimostrare che la scissione (ammesso che ci sia) non coinvolgerà più di tanto la base del partito. I fedelissimi di Renzi del resto mettono le mani avanti: «In vista delle amministrative siano noi gli unici a poter dare il simbolo del Pd a chi si vuole candidare». Chi esce dovrà correre con altre insegne.
Riflessione di 48 ore per scongiurare l’addio al partito. Rossi e Bersani: «La verità è che hanno alzato un muro». Senza ricucitura inizierà l’uscita dai gruppi parlamentari
ROMA All’assemblea nazionale del Pd Matteo Renzi non cambia linea e la minoranza dem annuncia la scissione, precisando che la «responsabilità» è del segretario. Il congresso si farà ma i tre ormai ex sfidanti di Renzi, Roberto Speranza, Michele Emiliano e Enrico Rossi non dovrebbero essere della partita. Il condizionale è d’obbligo perché c’è ancora qualche ora per tentare una ricucitura. Emiliano, Rossi e Speranza danno 48 ore a Renzi per appurare se è disposto a fare una «mossa politica vera» per scongiurare la scissione. Se così non sarà, si tireranno fuori dal percorso congressuale. E quello sarà il segnale: via all’uscita dai gruppi parlamentari e alla costituente di un nuovo partito della sinistra. Martedì in direzione si darà il via alla commissione congresso. Entreranno esponenti della minoranza? Al momento è escluso. Quel che è certo è che quella di ieri è stata una giornata lunghissima, vissuta sull’orlo della spaccatura, che però a metà pomeriggio si chiude con la minoranza scissionista divisa per l'inattesa apertura di Michele Emiliano che per qualche ora diventa mediatore e che a Renzi dice: «Mi fido di lui». Il presidente della Regione Puglia propone una linea meno dura rispetto a quella di Rossi e Speranza. «L’unità è a portata di mano», ha detto Emiliano facendo un passo indietro e auspicando una «strada condivisibile per tutti». E ancora: «Rimanere insieme è a portata di mano. È una questione legata a piccoli meccanismi, mi pare. Io sto provando nei limiti delle mie possibilità, a fare un passo indietro che consenta di uscire tutti di qui con l’orgoglio di appartenere a questo partito». Il governatore, insomma, si appella a Renzi i. Emiliano parla a titolo personale? «Ha parlato per tutti» taglia corto il bersaniano Davide Zoggia. Ma anche l’ultimo tentativo cade nel vuoto e poco dopo la conclusione dell’assemblea Emiliano, Rossi e Speranza firmano una nota congiunta che di fatto annuncia la rottura: «Anche oggi nei nostri interventi in assemblea c’è stato un ennesimo generoso tentativo unitario. È purtroppo caduto nel nulla. Abbiamo atteso invano un’assunzione delle questioni politiche che erano state poste, non solo da noi, ma anche in altri interventi di esponenti della maggioranza del partito. La replica finale non è neanche stata fatta. È ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima». Ma l’attacco più duro arriva da Pier Luigi Bersani. «Siamo a un punto delicato. Una parte di noi pensa che se va avanti così il Pd va a sbattere. Non vogliamo mandare a casa Renzi per forza. Stiamo dicendo che vogliamo discutere di una correzione di rotta. Renzi ha alzato un muro. Ma se si va avanti così, non sarà possibile aprire una discussione» dice l’ex segretario, ospite di “In mezz’ora”, che aggiunge : «Sono di sinistra e non sopporto di vedere un livello di disuguaglianza così aberrante». Al coro si aggiunge il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Ci hanno bastonato e dicono di soffrire loro... La verità è che hanno alzato un muro. Tutti, anche Veltroni e Fassino. Sia nel metodo che nella forma. Tutti interessati a difendere Renzi. Per noi la strada, invece, è diversa, è un’altra. Sono maturi i tempi per formare una nuova area». A quando un nuovo partito? «I tempi sono quelli per la costruzione di una nuova forza con quei cittadini che non considerano più a sinistra il Pd» affonda Rossi. A Renzi non devono esser piaciute le parole di Guglielmo Epifani, che ha condannato l’idea di tirare dritto: «Mi sembra un errore, un segretario deve avere la capacità di guardarsi dentro con la comunità che rappresenta e cercare di superare le difficoltà. Se questo viene meno, è chiaro che per molti si aprirà una riflessione che poi porterà a una scelta».