TERAMO In quel garbuglio formale di fascicoli e procedure a cui sempre più si demanda il fronte delle garanzie individuali, è sicuramente una sentenza destinata a far discutere quella con cui il giudice del lavoro di Teramo Giuseppe Marcheggiani ha annullato il licenziamento di una lavoratrice obbligando l’azienda al suo reintegro. La donna, dipendente di una catena di negozi e con una disabilità riconosciuta dalla Asl, dopo la chiusura del punto vendita in Val Vibrata era stata trasferita nella sede di Città Sant’Angelo ma da full-time il suo contratto si era ridotto a part-time. La lavoratrice aveva rifiutato di accettare la riduzione dell’orario di lavoro e l’azienda le aveva comunicato che, in questo caso, la destinazione sarebbe stata Milano o Roma. Da qui il no della donna e il successivo licenziamento impugnato con un ricorso. Un ricorso che qualche giorno fa è stato accolto dal giudice che ha scritto: «E’ illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore che abbia rifiutato la trasformazione in tempo parziale del proprio rapporto di lavoro qualora il datore di lavoro non dimostri la sussitenza di esigenze produttive contrarie alla permanenza a tempo pieno del rapporto». Il giudice di primo grado ha condannato l’azienda al reintegro della lavoratrice nel posto di lavoro più vicino, ovvero quello già individuato a Città Sant’Angelo, con un contratto a tempo pieno e al risarcimento del danno per con il pagamento di 12 mensilità. Scrive ancora il magistrato: «Accertato pertanto il carattere pretestuoso della mancata formulazione da parte della società, immotivamente determinatasi a ricorrere a forma contrattuale flessibile, di una proposta di trasferimento accettabile della ricorrente, disposta, per come è pacifico, a ricercare una sistemazione abitativa nel luogo di divisata destinazione (Città Sant’Angelo), deve in pari tempo ritenersi che la ricorrenza di un concreto nesso di derivazione causale dal riassetto aziendale del disposto recesso sia esclusa dalla medesima condotta attuata dal datore nel corso delle citate trattative, interrottesi a seguito dell’illegittima pretesa di subordinare la conservazione del rapporto di lavoro alla sua trasformazione in part-time». Una sentenza, quella di Marcheggiani, che arriva dopo il recente pronunciamento della Cassazione che ha sollevato non poche polemiche. Il riferimento è alla sentenza del 7 dicembre scorso con cui i magistrati della Suprema corte hanno stabilito il principio per cui «è legittimo il licenziamento anche se è dettato dalla sola volontà e dal semplice scopo di aumentare i profitti». Dice l’avvocato Sigmar Frattarelli, il legale che ha assistito davanti al giudice la lavoratrice dalla Val Vibrata: «Il principio stabilito dalla sentenza di Marcheggiani va decisamente contro quello della libera licenziabilità per aumentare i profitti e assume rilievo soprattutto se si considera che in questo periodo di grave crisi è sempre forte la tendenza e la tentazione per le aziende di ridurre il personale sulla base di motivazioni economiche che in realtà molto spesso nascondono non una reale esigenza di riorganizzazione ma soltanto lo scopo di ridurre i costi per incrementare i profitti. Il giudice Marcheggiani ha chiaramente stabilito che non è consentito al datore di lavoro pretendere l’accettazione della riduzione dell’orario di lavoro rilevando quindi la pretestuosità della motivazione del licenziamento».