Era fine maggio, a Roma si sarebbe votato pochi giorni dopo. Una mattina, i cittadini in coda agli sportelli del “Palazzo delle Multe” videro avanzare peristalticamente nei corridoi Virginia Raggi scortata da un paio di dirigenti comunali già noti per la vicinanza al Movimento 5 Stelle. Dietro, un gruppazzo di fan grillini delle ultime settimane o addirittura ore. Tutti dipendenti pubblici ai quali la consigliera comunale in corsa per il Campidoglio andava da tempo dicendo: «Per prima cosa riallacceremo buoni rapporti con i dipendenti capitolini onesti schiacciati dalla macchina politica: con loro faremo ripartire la macchina comunale e, da lì, cambieremo rotta». Lo ripeté al personale di Atac, Ama e Acea, le aziende di trasporti, servizi ambientali ed energia, e della polizia di Roma Capitale. Ove possibili, tour degli uffici, rapidi comizietti, strette di mano, sorrisi. Gli incontri della candidata sindaco con i rappresentanti dei tassisti e degli ambulanti furono invece organizzati con più riservatezza. Data la scarsa dimestichezza del futuro sindaco con la diversificazione retorica, si può immaginare che ripeté gli stessi slogan: siamo dalla vostra parte, stiamo studiando i vostri problemi, faremo settore per settore una due diligence (la raccolta delle informazioni utili a valutare le attività di un’azienda), poi interverremo. Ovviamente, gli impegni che portano più voti sono quelli che si trattano privatamente, e il piccolo staff di Virginia Raggi li mise a punto con la discreta consulenza degli studi legali dalla quale lei proveniva. Nulla d’inaudito né d’inedito. Anche il candidato Gianni Alemanno nel 2008 aveva corteggiato in pubblico e in privato le potenti corporazioni che, quando vogliono, paralizzano la capitale. Una volta eletto, aveva mantenuto gli impegni presi, abbinandoli con il sistematico collocamento di decine dei reduci della violenza fascista degli anni ’70 e ’80, piazzati ai massimi livelli delle gerarchie del municipio e delle aziende comunali. Il miglior terreno di coltura per Mafia Capitale, si scoprì anni dopo. Anche Raggi sta mantenendo le promesse alle superlobby pubbliche e private, che erano di fermare il tentativo di rinnovamento della macchina comunale maldestramente avviato da Ignazio Marino e di lasciare intaccate le prebende di tramvieri, tassisti, ambulanti eccetera. Per riuscirci, le basta non fare nulla. Il totale immobilismo era quanto le avevano chiesto, concedendole un po’ di polverone tipo le due diligence, delle quali infatti s’è persa traccia. Poi però arrivano le crisi acute, e restare ferma come una lucertola al sole non è più sufficiente per rispettare i patti. Se una delle corporazioni romane più potenti - i tassisti - scende aggressivamente in piazza, Raggi è chiamata a pagare i suoi debiti elettorali. Si spiega così la sua adesione plateale alle proteste dei giorni scorsi. Poco importa, nell’impostazione ormai costantemente pre-elettorale del Movimento, che in questo caso i nemici da abbattere siano Uber e i suoi epigoni, che grazie alla disintermediazione digitale stanno rivoluzionando il trasporto metropolitano in tutto il mondo. Un argomento che la base di M5S conosce bene: non si può fermare il progresso, i vantaggi per ampie fasce di cittadini consumatori possono essere a spese delle categorie con scarsa propensione al cambiamento. Ma le idee non sono scolpite nella pietra. Il manovratore di Raggi, Beppe Grillo, nel 2000 sfasciava a legnate i computer sul palcoscenico, nel 2009 esaltava le qualità taumaturgiche della digitalizzazione forzata nonostante fosse più che evidente che avrebbe distrutto milioni di posti di lavoro, nel 2017 diventa il paladino delle categorie che contrastano l’innovazione ma assicurano pacchetti di voti. A Roma siamo solo agli inizi. I vigili urbani prima o poi si faranno sentire. Come i dipendenti di Ama, anticipando la solita crisi estiva. Gli ambulanti già spadroneggiano. Ogni volta, Raggi deve e dovrà rispettare i patti.