ROMA Rompere il tabù renziano dell'aumento dell'Iva. Nei ragionamenti che si sono iniziati a fare tra Tesoro e Palazzo Chigi per ridurre i contributi previdenziali che pesano sulle buste paga dei lavoratori, c'è anche questo. La strada, va detto, è impervia. Già una volta Matteo Renzi ha stoppato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, che voleva ritoccare l'imposta sul valore aggiunto per accontentare la richiesta di Bruxelles di correggere i conti per 3,4 miliardi di euro. Ma questa volta non si tratterebbe di un aumento secco delle tasse sui consumi, piuttosto di uno scambio. Ogni euro di Iva in più andrebbe ad alleggerire il cuneo fiscale pagato dalle imprese e dai lavoratori. Del resto questa sarebbe l'unica strada per dare un certo peso alla proposta lanciata dal premier Paolo Gentiloni di ridurre le imposte sul lavoro. Gli sgravi concessi solo ai neo assunti, che resta l'ipotesi principale sulla quale i tecnici si sono concentrati per ora, ha il vantaggio di costare poco: 1-1,5 miliardi di euro. Ma porta con se altri svantaggi. Il primo è che riguarderebbe una platea limitata di persone. Il secondo è che, se lo sgravio fosse ancora una volta limitato nel tempo, rischierebbe di mettere in concorrenza i lavoratori assunti con la decontribuzione legata al jobs act, i cui incentivi scadranno nel 2018, con i nuovi lavoratori incentivati.
Se invece, come pure si sta valutando, lo sgravio fosse «a vita», ossia un diritto soggettivo che ogni lavoratore si porterebbe di posto in posto, allora i costi sarebbero contenuti solo nei primi anni per diventare notevoli man mano che il tempo passa e nuova manodopera entra nel mercato. Anche in questo caso, insomma, andrebbero previste coperture strutturali di una certa importanza. C'è poi l'ipotesi più «hard» di ridurre i contributi fino a 5 punti, per tutti i lavoratori dipendenti, anche quelli che già hanno un impiego. Il costo dell'operazione è notevole: 12,5 miliardi di euro. Ed è qui che entra in ballo l'Iva.
LA RACCOMANDAZIONE L'attenzione si concentra su un incremento di 3 punti dell'aliquota ridotta del 10 per cento, intermedia tra quella ordinaria e quella super-ridotta del 4. Le clausole di salvaguardia inserite in bilancio due anni fa e disinnescate per il 2017 con la manovra approvata lo scorso autunno prevedevano per quest'anno che il livello del 10 venisse alzato al 13 e che l'aliquota ordinaria del 22 per cento fosse invece portata al 24 quest'anno e al 25 nel 2018. Scongiurando l'aumento, la legge di bilancio in realtà lo rimandava tutto intero al prossimo anno, dunque tre punti in più su entrambe le aliquote; in più aggiungeva un'ulteriore scatto dello 0,9 per cento su quella ordinaria dal 2019. Dunque ora il governo potrebbe bloccare l'incremento dal 22 al 25 per cento, lasciando invece scattare quello dal 10 al 13. Il maggior gettito stimato è di circa 7 miliardi; nell'ipotesi di impiegarlo tutto sul fronte del costo del lavoro e di non poter sfruttare ulteriori margini di flessibilità di bilancio resterebbero da trovare le ingenti risorse corrispondenti all'importo complessivo delle clausole.
L'Iva al 10 per cento si paga su una serie di prodotti alimentari (dalla carne al pesce ai salumi) sui biglietti di treni aerei e autobus, su quelli di cinema e teatri, sull'energia elettrica, sui farmaci, sulle consumazioni al bar e al ristorante e sulla spesa per gli alberghi. Voci abbastanza sensibili, anche se un aumento potrebbe essere presentato come attenuazione di un'agevolazione che comunque resta in piedi. Di sicuro l'operazione - se impostata come scambio con il taglio del costo del lavoro- sarebbe assolutamente gradita agli organismi internazionali come la Ue e l'Ocse che in quasi tutti i loro documenti, compresi quelli più recenti relativi al nostro Paese, caldeggiano una riduzione del prelievo sulle persone e sui fattori produttivi compensato da un inasprimento di quello sui consumi (e sulla proprietà). Addirittura nel caso dell'Unione europea questa è una delle raccomandazioni fatte all'Italia nell'ambito della valutazione del Programma nazionale di riforme: proprio quel programma che il governo dovrà aggiornare ad aprile insieme al Documento di economia e finanza.