Da oltre dieci anni il lavoro rappresenta la principale preoccupazione degli italiani: con l’approvazione della legge Biagi, nel febbraio 2003, si è diffusa la convinzione che il posto fisso sarebbe presto diventato una chimera e avrebbe lasciato spazio a lavori precari, limitando i processi di autonomia dei giovani che, non a caso, in larga misura continuano a vivere nella famiglia di origine (63% tra i 18 e i 35 anni, secondo i più recenti dati Istat). Con il conclamarsi della crisi economica, il tema occupazionale è diventato ancora più acuto e riguarda non solo la difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani ma anche la perdita del posto di lavoro da parte degli adulti.
Il rischio
Non stupisce, quindi, che fin dal suo esordio il Jobs act, la riforma del lavoro varata dal governo Renzi, abbia polarizzato le opinioni dei cittadini. E non stupisce neppure la curiosità suscitata dal referendum promosso dalla Cgil riguardante l’abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti e i voucher, consultazione che era stata indetta per il prossimo 28 maggio ma ormai superata dal decreto con cui il governo intende abolire i buoni lavoro previsti per attività occasionali di tipo accessorio. È necessario peraltro attendere che il decreto sia convertito in legge e che la Cassazione ne prenda atto. Il referendum avrebbe potuto rappresentare un rischio per il governo. Ma come si sarebbero schierati gli italiani se si fosse votato? Il 60% sapeva del referendum e all’incirca un terzo si è dichiarato molto (13%) o abbastanza (22%) interessato, con punte più elevate tra gli elettori del Movimento 5 Stelle.
La mobilitazione
Nonostante l’elevata attenzione per il tema occupazionale, l’eventuale mobilitazione degli elettori è apparsa piuttosto limitata: il 20% sarebbe andato sicuramente alle urne, il 16% probabilmente lo avrebbe fatto e il 23% lo escluderebbe esplicitamente. La scarsa partecipazione è apparsa influenzata sia dalla elevata quota di cittadini che ignoravano la consultazione (41%) sia, presumibilmente, da una certa usura dello strumento referendario che, negli ultimi 10 anni ha fatto registrare il mancato raggiungimento del quorum in 7 degli 8 referendum abrogativi indetti.
I buoni lavoro
Gli orientamenti di voto erano comunque favorevoli all’abrogazione, sia pure in presenza di un elevato numero di incerti: riguardo ai voucher il 15% avrebbe votato Sì all’abolizione, il 7% No, il 14% indeciso e il 64% non avrebbe avuto intenzione di andare a votare. Escludendo astensionisti e incerti, il Sì si sarebbe affermato sul No per 68% a 32% prevalendo tra tutti gli elettori (in particolare M5s 81%, Lega 76% e Forza Italia 75%), con l’eccezione di quelli del Pd tra i quali sarebbe stato maggioritario il No, sia pure in presenza di una minoranza tutt’altro che trascurabile di contrari ai voucher. Dunque si sono sovrapposte le posizioni dell’area politica di appartenenza degli elettori alle motivazioni di merito, alimentate dall’acceso dibattito sull’utilizzo dei buoni lavoro che alcuni ritengono strumenti di regolarizzazione del lavoro nero mentre altri uno strumento abusato a cui si fa ricorso per evitare assunzioni e contenere il costo del lavoro.
Gli appalti
Le intenzioni di voto apparivano ancora più nette riguardo alla responsabilità dei committenti degli appalti pubblici: 16% avrebbe votato Sì alla modifica della legge, il 2% No e il 22% non avrebbe saputo cosa votare. Ciò si tradurrebbe nell’89% a favore della modifica e 11% contro, escludendo gli astensionisti e gli incerti. In questo caso il Sì sarebbe prevalso tra tutti gli elettori, compresi quelli del Pd.
Il valore simbolico
Gli atteggiamenti riguardo ai quesiti referendari sembravano quindi piuttosto netti, ma è il raggiungimento del quorum che sarebbe apparso e piuttosto distante. Indipendentemente dalle risultanze che avrebbe potuto avere in termini di affluenza e di voto, è evidente che il referendum avrebbe assunto un significato simbolico di elevato valore politico: un esito avverso, dopo quello del 4 dicembre, insieme alla complessa tornata elettorale alle Amministrative di primavera (che riguarderà circa 1.000 Comuni tra cui 4 capoluoghi di Regione e 21 di Provincia) nella quale molto probabilmente si vedranno gli effetti della scissione nel Pd, avrebbero potuto creare problemi ai dem e al leader che uscirà dalle primarie del 30 aprile.