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Data: 20/03/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Asili, ora si cambia maestre laureate più posti per i bimbi. Le reazioni «Una buona novità, ma non risolverà tutti i problemi»

ROMA Maestre ed educatrici laureate, più posti per i bambini e un'organizzazione che sia uguale per tutti, da Nord a Sud. Una linea unica che parte dagli uffici del ministero dell'istruzione e arriva nei singoli comuni ed enti locali per poi raggiungere gli asili. Una vera e propria rivoluzione, quella contenuta nella Delega 0-6 della riforma della Buona scuola, che va a riorganizzare il lavoro che si svolge quotidianamente negli asili nido e nelle scuole materne.
Il testo del decreto per la delega sul sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni è stato studiato dalle commissioni di Camera e Senato ed ha incassato il parere positivo. Ora quindi viaggia spedito verso la realizzazione a partire da settembre prossimo, per entrare così in vigore nell'anno scolastico 2017-2018.

I CONTENUTI Il testo ha definito i titoli di accesso per insegnare nei nidi e nelle scuole dell'infanzia: le educatrici degli asili nido devono avere la laurea triennale, mentre fino ad oggi è stato sufficiente avere un diploma delle regioni come puericultrice. Per insegnare invece nella scuola dell'infanzia sarà necessario aver conseguito la laurea magistrale. Quindi, le maestre della materna dovranno specializzarsi nel settore. Per le docenti già in classe, ovviamente, non cambierà nulla: le nuove regole infatti andranno ad interessare il prossimo reclutamento.
Si tratta di una specializzazione mirata e specifica, ben distinta tra l'educatore per bimbi sotto i tre anni e l'insegnante per i bambini dai 3 ai 6 anni: un docente di scuola dell'infanzia che voglia, ad esempio, insegnare in un nido deve acquisire altri 60 crediti formativi universitari. In questo modo il servizio educativo per la primissima infanzia, quindi per bambini al di sotto dei tre anni, andrà a far parte del settore dedicato all'istruzione e alla formazione e non farà più parte del welfare.
L'obiettivo è quello di creare un servizio scolastico che garantisca la giusta continuità educativa per i bambini che passeranno così dai servizi 0-3, tra cui rientrano nidi, micronidi e spazi gioco e in parte le sezioni primavera dai 24 ai 36 mesi, alle scuole dell'infanzia statali e paritarie.
Per realizzare la riforma, sono stati inoltre stanziati fondi appositi da destinare all'attivazione di nuovi posti, soprattutto per i nidi che sono ancora troppo pochi e non rispettano gli standard internazionali. In Italia infatti la media dei posti disponibili negli asili è del 17% della popolazione da 0 a tre anni contro il 33% dell'obiettivo di Lisbona, richiesto dall'Unione Europea per il 2020. In Italia esiste una distanza incredibile da una regione all'altra: si va dal picco virtuoso dell'Emilia Romagna che vanta il 26,7% di copertura fino al picco opposto, quello che si registra in Calabria, dove la percentuale di posti raggiunge appena il 2,1%.

IL FONDO DEDICATO Proprio su queste carenze andrà ad intervenire il fondo di 670 milioni di euro, stanziato dalla nuova riforma dell'infanzia, e arriverà direttamente ai singoli comuni. Gli enti locali dovranno infatti utilizzare i fondi per potenziare il servizio, quindi le quote saranno distribuite in maniera inversamente proporzionale rispetto alla presenza delle classi già esistenti.
Conti alla mano, i risultati dovrebbero arrivare. «Se il governo Prodi con 300 milioni di euro è riuscito ad aumentare il servizio dei nidi dal 9% al 17% - ha spiegato la senatrice Pd Francesca Puglisi, prima firmataria della riforma del settore educativo 0-6 anni -, con 670 milioni di euro si dovrebbe arrivare al 33% della copertura». In questo il governo spera di raggiungere con la scuola materna il 100% dei bambini da 3 a 6 anni, ora fermi al 94%, e almeno i 3 quarti dei Comuni sul territorio nazionale.

LE REAZIONI «Una buona novità, ma non risolverà tutti i problemi»

ROMA «Quello che serve nella Capitale è riportare i bambini negli asili nido pubblici oltre a delle politiche che agevolino le famiglie a fronteggiare l'aumento delle tariffe». La pensano così numerose educatrici e rappresentanze sindacali romane di fronte alla possibilità che lo Stato - tramite l'attuazione di uno dei decreti alla Buona Scuola da parte del ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli - possa avocare a sé gli asili nido pubblici della Capitale. L'obiettivo del governo è abbastanza chiaro: creare dei poli dell'infanzia in tutto il territorio nazionale, decidere l'eventuale stanziamento di risorse per l'apertura di nuove strutture e regolare la compagine sociale ed educativa del settore attraverso il recupero di educatrici con il titolo di laurea. «Tutto questo non potrebbe che comportare un miglioramento per il sistema dei nidi romani - argomenta Antonia Labonia, referente territoriale Lazio del Gruppo nazionale nidi-infanzia - anche perché il Comune manterrebbe la gestione degli spazi ma lo Stato fornirebbe al settore un impianto normativo oggi assente o debole».
LE URGENZECiononostante, proprio nella Capitale tante altre sono le urgenze a cui gli enti territoriali non hanno saputo rispondere. Dall'aumento delle tariffe al seguente crollo delle iscrizioni nelle strutture pubbliche. Fattori questi, che hanno portato, solo nel 2016, a lasciare vuoti più di 2mila posti nei nidi a diretta gestione del Campidoglio. Nella Capitale - come in molte altre città italiane - esiste un sistema integrato pubblico-privato: 207 sono i nidi pubblici e 214 quelli convenzionati. I posti nei primi sono rimasti pressoché invariati negli ultimi 4 anni (e dunque non servono nuove strutture) ma le domande sono notevolmente diminuite. Sempre nell'arco di un quadriennio, infatti, le richieste di un posto in un nido pubblico sono scese del 21%, passando dalle 19.900 del 2012 alle 16.024 del 2015. Ed è chiaro che parte di questa contrazione deriva sì, dalla diminuzione delle nascite (benché a Roma ci siano circa 71mila bambini con un'età compresa tra 0 e 3 anni), ma anche dall'aumento delle tariffe che proprio in città sono aumentate in media del 47%.

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