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Data: 12/04/2017
Testata giornalistica: Il Centro
Landini: «Il sindacato deve cambiare». Il segretario della Fiom-Cgil in città per presentare la Carta dei diritti del lavoro: «Se al Senato fanno i furbi siamo pronti» (l'articolo in pdf)

PESCARA Ribadisce, e non sono in pochi a chiederglielo, che non scenderà in politica. «Mai». E del politico Maurizio Landini non ha il temperamento nè i modi: troppo irruento, troppo trasparente, troppo senso di responbilità e altrettanta capacità di riconoscere gli errori di quel che rappresenta – il sindacato – molta memoria storica, niente mezze misure e un chiaro fastidio per scaricabarile, compromessi e rinvii. Come politico avrebbe vita breve, come sindacalista guarda al futuro di un mondo del lavoro con un cambiamento in atto «da governare nell’ottica dei diritti». Il segretario nazionale della Fiom Cgil, metalmeccanico fino alle midolla, irrompe nel primaverile pomeriggio infrasettimanale pescarese e cattura decine di persone a passeggio in centro parlando semplicemente di: lavoro, diritti, persone. Ad attenderlo in piazza Muzii ci sono una band che suona, un banchetto che vende maglie con il Che e bandiere della Pace, referenti provinciali e regionali della Fiom – Emilia Di Nicola, Alessandra Tersigni, Alfredo Fegatelli – colleghi dello Spi Cgil come Paolo Castellucci, qualche rappresentante del Pd, tra gli altri l’assessore regionale Marinella Sclocco, il consigliere comunale Pietro Giampietro. Soprattutto ci sono un centinaio di uomini e donne, giovani e meno giovani, italiani e stranieri, venuti da più parti dell’Abruzzo per sapere dalla sua viva voce qualcosa di più sulla Carta dei Diritti universali del Lavoro, proposta di legge di iniziativa popolare per un nuovo Statuto dei lavoratori consegnata al Parlamento dalla Cgil con un corredo di un milione e 150mila firme a sostegno. Lui si siede su uno sgabello davanti a un bicchiere di Montepulciano e risponde alle domande di tutti, giornalisti, badanti, precari, pensionati. Sindacato e governo: come vanno i rapporti? «Per tre anni ci hanno detto che loro erano il Paese, che avevano consenso, che noi eravamo vecchi. Poi alla prima occasione, il 4 di dicembre scorso, si sono accorti che invece sono loro a non avere la maggioranza del Paese. È evidente che hanno paura del voto e della democrazia. Abbiamo difeso la Costituzione e sono stati sconfitti, e abbiamo dimostrato con i referendum che si può tornare indietro e quindi si può brindare ai nostri successi. Ora tocca alla scuola, alle pensioni e al job-act, perché cambiare si può e si deve fare» Quali i punti più importanti e urgenti che la Carta dei diritti affronta? «Intanto credo che ci sia una forma importante, perché in questo Paese qui secondo me gli spazi di democrazia e partecipazione sono molto ridotti e c’è il rischio di una logica autoritaria che gestisce sia la politica che l’impresa, quindi è utile ricordare come ci siamo arrivati alla Carta dei diritti, perché sul piano del metodo è importante: prima di scriverla abbiamo ascoltato centinaia di migliaia di iscritti, una consultazione straordinaria, migliaia di assemblee. Abbiamo chiesto se si fosse d’accordo che la Cgil mettesse a punto la Carta e fosse il soggetto promotore del referendum come mai fatto nella nostra storia. Abbiamo avuto il consenso di lavoratori e lavoratrici, incontrato precari e partite Iva, e ci siamo resi conto che il sindacato deve cambiare: la Carta dei diritti non è solo una proposta per cambiare le politiche del governo, ma chiede anche al sindacato di cambiare, di tornare ad essere il soggetto che rappresenta tutte le forme di lavoro. É questa la vera novità della Carta dunque? Certo, anche. Oggi se uno pensa allo Statuto dei lavoratori sa che valeva per chi aveva un contratto a tempo indeterminato, ma noi non diciamo che si deve riconquistare lo Statuto del 1970, ma di conquistarne uno nuovo, che preveda diritti per tutti quelli che lavorano, anche chi ha lavoro autonomo deve avere diritti, tutte le persone che lavorano devono avere diritti come parità salariale, maternità, ferie, malattia, diritto alla formazione, infortunio. Al centro ci deve essere la persona che lavora e deve avere i diritti comuni, uguali agli altri: questa è la cultura che vogliamo affermare, questa la novità di fondo. Vaucher e appalti nelle due proposte di referendum. I vaucher si sono trasformati in arma a doppio taglio, sfornando ingiustizie e furbizie, cosa proponete per sostiuirli? Noi proponiamo che il lavoro occasionale venga regolato. Si sono usati i vaucher per ridurre i diritti e pagare meno le persone. Ci sono già forme che regolano il lavoro occasionale – flessibilità, stagionale, part time, contratto a termine, interinale... –, se si vuole ci sono rapporti di lavoro che permettono di affrontare esigenze tempestive delle imprese, ma il concetto deve essere che a parità di condizione ci devono essere parità di diritti e parità di retribuzione, possibilità di pensione, accesso al sistema sanitario. I vaucher non coprivano più l’occasionale occupazione, non combatteva il lavoro nero, bugia grande, che non è calato anzi. Cancellarli è un atto di civiltà, la nostra proposta di legge dice che anche se occasionale il lavoro deve essere subordinato, dietro ci deve essere una persona non un biglietto comprato dal tabaccaio. Appalti: i vantaggi per le piccole aziende? Si stabilisce ora una regola di parità nella competizione, perché chi fa il furbo non vada in porto. Il concetto introdotto è che se ho una azienda e ti appalto il lavoro quello che succede a chi lavora per la ditta subappaltatrice dipende anche da me, ne risponde chi fa l’appalto, che così deve scegliere sulla base della serietà, i giochini devono diventare non convenienti. L’abolizione di vaucher e appalti solidali è al Senato, passerà? La Camera li ha aboliti, ma se al Senato fanno i furbi noi per il 28 maggio siamo pronti. La manifestazione del 6 maggio a Roma serve a rilanciare i temi del lavoro, perché non basta l’abolizione dei voucher e degli appalti solidali, ma dobbiamo insistere su job-act, Articolo 18 e pensioni, cambiare insomma tutta la politica del lavoro. Se ne è accorto anche il “compagno” Renzi dopo il voto del 4 dicembre. Sono andati a votare sei milioni di italiani in più rispetto alle Europee, perché se gli italiani non si sentivano allora rappresentati né da Grillo, da Salvini o da Renzi stesso, con quel voto massiccio hanno dato una indicazione chiara.

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