L’AQUILA Nella busta paga c’è scritto: “Netto del mese 1.589 euro”, ma nelle tasche dell’operaio è grasso che cola se entrano dai 700 ai 1.000 euro. A volte pagate cash, magari in diversi momenti, oppure con un versamento su postepay. È il modus operandi di una delle tantissime imprese impegnate nella ricostruzione, inesistenti per l’ente bilaterale della Cassa edile perché non si sono mai iscritte nonostante l’obbligatorietà, che arrivano da fuori regione nella terra di conquista aquilana scegliendo, però, quei territori su cui l’attenzione è inferiore rispetto alla città: i Comuni del circondario. In questo caso non facciamo nomi, per non mettere in difficoltà il lavoratore che con la moglie è andato a chiedere aiuto alla segreteria provinciale della Fillea Cgil, dove la sindacalista Cristina Santella segue ogni giorno decine di casi di operai sfruttati e apparentemente assunti in modo regolare, ma che in realtà finiscono nel giogo del lavoro grigio difficile da scovare. A sedere davanti alla Santella in una mattina come tante è questa volta un operaio del Meridione, padre di 4 figli e residente da anni in un Comune poco distante dall’Aquila. Da anni lavora per una ditta della provincia di Caserta e da gennaio non riceve lo stipendio. Quando si rivolge al sindacato, alla Santella si apre un “vaso di Pandora”: l’importo dichiarato in busta paga non corrisponde a quello effettivo, un caso, denuncia la sindacalista, di «metodi mafiosi» di sfruttamento del lavoro che finiscono a centinaia sulle scrivanie della Fillea Cgil e che fanno leva sulla debolezza dei lavoratori, i quali non denunciano per non perdere il posto di lavoro. Casi diversi nei metodi da quelli emersi nell’inchiesta della Dda dell’Aquila definita Caronte, «ma che sortiscono lo stesso effetto», dice Santella. Ossia lo sfruttamento del lavoro grigio, quello apparentemente regolare. «Quando gli ispettori vanno a controllare, spesso su nostra segnalazione, a prima vista dalla busta paga così apparentemente precisa non c’è nulla da rilevare», denuncia Santella, «i vari dati vengono riportati in modo scientifico per non lasciare dubbi a chi controlla, ma non corrispondono alla verità. Il lavoratore in questione non percepiva nemmeno le detrazioni e gli assegni famigliari nonostante fossero inseriti in busta». Le soluzioni che imprenditori furbetti mettono in atto per lucrare sul lavoro dei dipendenti sono infinite; decine anche i casi di «ore rubate agli operai», buste paga in cui viene riportato un totale di ore lavorate irrisorio per un cantiere edile. Un esempio fra tutti, è quello di un operaio per il quale la ditta dichiara 80 ore al mese: «La media in cantiere dovrebbe essere di 160-170 ore», precisa la sindacalista. Per giustificare le ore mancanti vengono spesso gonfiati i giorni di ferie dell’operaio o le aspettative non retribuite. Ore e giorni in cui, in verità, l’operaio va in cantiere.