ROMA Il dibattito su tasse e manovra è iniziato. Il fuoco alle polveri lo ha dato direttamente il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Al Messaggero, nell'intervista pubblicata domenica scorsa, ha giudicato «un'opzione sostenuta da buone ragioni» lo scambio tra un aumento dell'Iva e la riduzione delle tasse sul lavoro. «Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale», ha detto il ministro, «è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive, le quali non possono più avvantaggiarsi del tasso di cambio. Si tratta di una richiesta classica», ha proseguito, «e siccome io sono anche un tecnico ricordo che nelle scelte politiche non si possono ignorare gli aspetti tecnici e viceversa». Ma quali sono questi aspetti tecnici? Per capirli bisogna prendere il rapporto sull'Italia dell'Ocse, l'organizzazione economica che di cui lo stesso Padoan è stato capo economista per anni, e che è stata pubblicata un paio di mesi fa. In quel testo c'è uno studio puntuale su quali sarebbero gli impatti dello scambio più Iva meno cuneo fiscale adombrato dal ministro dell'economia. Innanzitutto l'Ocse ha ricordato solo qualche giorno fa, che nella classifica del cuneo fiscale l'Italia si piazza al quinto posto su trentacinque paesi. Su un lavoratore non sposato, le tasse sulla busta paga pesano il 47,8% contro una media Ocse del 36%. Sulla paga di un dipendente con moglie e due figli, il cuneo è del 38,6% contro una media Ocse del 26,6%.
LA TESI
Non solo. In Italia, spiega ancora l'organizzazione parigina, i contributi sociali pesano per il 13% del Pil, e il loro peso a carico dei datori di lavoro è, ancora una volta, tra i più alti dei paesi occidentali. Qual è allora la proposta dell'Ocse? «Una riduzione degli oneri sociali a carico dei datori di lavoro di 10 punti percentuali consentirebbe di aumentare il Pil pro capite dell'1,6% dopo cinque anni (0,3% l'anno) e del 2% dopo 10 anni. Il tasso di occupazione», aggiungono gli economisti, «registrerebbe inoltre un notevole aumento, rispettivamente di 1 e 1,3 punti percentuali dopo cinque e dieci anni». Il problema è che se si tagliano i contributi sociali pagati dalle imprese, è necessario che lo Stato si faccia carico di indennizzare l'Inps che qui contributi incassa per pagare le pensioni. E qui entra in gioco l'Iva. Secondo l'Ocse andrebbe incrementato il «Vat revenue ratio», ossia il rapporto tra l'Iva attualmente riscossa e quella che teoricamente dovrebbe essere riscossa applicando l'aliquota standard (il 22% attualmente in Italia) all'intera base imponibile potenziale. In soldoni, spiega l'Ocse, se il Fisco riuscisse a far pagare l'Iva a tutti quelli che la devono pagare ed eliminasse le aliquote ridotte (quella del 10% e quella del 4%), avrebbe un extragettito di 45 miliardi di euro «a consumi invariati». Quanto basterebbe per abbattere del 30% gli oneri sociali versati dai datori di lavoro. Ovviamente quello disegnato dall'Ocse è un punto di caduta massimo. Anche perché, pensare di eliminare in Italia l'aliquota minima, quella del 4%, che si applica sui beni di prima necessità, è complicato. Qualche ragionamento in più, probabilmente, si potrebbe fare sull'aliquota ridotta, quella del 10%. Quella dell'Ocse, però, è solo una delle ricette dibattute tra Tesoro, Palazzo Chigi e il Nazareno, la sede del Pd.
LE ALTERNATIVE
L'abbattimento delle tasse, secondo Matteo Renzi, dovrebbe passare per una riduzione delle aliquote fiscali Irpef, come aveva dettato nel suo cronoprogramma. E questo senza aumentare l'Iva. Altri economisti dello staff di Palazzo Chigi, invece, ritengono che l'abbattimento andrebbe comunque fatto partendo dal cuneo fiscale, ma riducendo i contributi sociali a carico dei lavoratori, non quelli delle imprese. Al Tesoro, invece, per ora si stanno concentrando su una decontribuzione soft, riservata solo ai neo assunti di età inferiore ai 35 anni e con uno sconto a termine, solo per i primi tre anni di assunzione. Un piccolo segnale, ma nessuna frustata per l'economia. Il dibattito, comunque, è appena cominciato.