ROMA Preoccupato per la bomba sociale innescata dal fallimento di Alitalia, sono 12.500 i posti a rischio, il governo si prepara al peggio nella consapevolezza che Alitalia è un'azienda privata e che sarà il cda a decidere i prossimi passi. Ovviamente non fa piacere perdere un asset strategico per il turismo e l'economia del Paese, o almeno così era considerata la ex compagnia di bandiera, dopo aver tentato in tutti i modi di evitare il default, mediando tra azienda e sindacati, banche azioniste ed Etihad. Nemmeno l'appello del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, lanciato forse a giochi già fatti, è riuscito a frenare la valanga dei no che ha seppellito il piano di salvataggio, affossando definitivamente le velleità di riscatto della compagnia. Un referendum, quello lanciato dai sindacati tra i lavoratori, che viene considerato come una mossa forse azzardata anche per il comportamento quantomeno ambiguo di alcune organizzazioni sindacali. Uil-trasporti in testa. Perché ora, ad urne chiuse, all'esecutivo non spetta che attendere le decisioni del consiglio d'amministrazione e dell'assemblea dei soci che chiederanno al governo la nomina di un commissario liquidatore che gestirà le procedure di amministrazione straordinaria, cercando un eventuale acquirente o, cosa più probabile, vendendo a pezzi l'azienda. Anche di questo si è parlato nel vertice a Palazzo Chigi di ieri sera tra Paolo Gentiloni e i ministri Calenda, Delrio e Poletti. Tutti d'accordo nella linea espressa nei giorni scorsi a più riprese dai ministri interessati. Ovvero che non c'è e non ci sarà un piano B e che nessuna ipotesi di nazionalizzazione è possibile.
PORTA STRETTA Tantomeno è pensabile possano affacciarsi investitori interessati ad acquistare in blocco l'azienda che invece possono rilevare a pezzi nel momento in cui il commissario procederà alla liquidazione nei sei mesi di tempo previsti dalla legge.
Oltre la legge non lo prevede e il governo non intende andare. La convinzione è che dopo aver messo quasi dieci miliardi in Alitalia negli ultimi anni non sia più possibile chiedere ai contribuenti altre risorse. Senza contare che le casse dello Stato saranno chiamate a tirar fuori quasi cinquecento milioni per le procedure di commissariamento. Alla cifra andranno anche aggiunti altri cinquecento milioni per gli ammortizzatori sociali per le migliaia di dipendenti, per lo più di terra, che ne avranno diritto. Da una prima analisi del voto sembra che a determinare la prevalenza dei no siano stati piloti e assistenti di volo che in questo modo hanno detto no al taglio dello stipendio dell'8%, sperando forse in un altro piano Fenice che il governo non solo non intende mettere in atto, ma che l'Europa vieterebbe. Ipotesi di nazionalizzazioni, più o meno camuffate, non sono all'ordine del giorno e ieri pomeriggio tutti i ministri si sono ritrovati sulla linea del presidente del Consiglio. Lo sconcerto per il risultato e l'accusa a qualche sindacato di aver giocato su più tavoli avendo prima impedito la firma di un accordo (ai lavoratori è stato infatti sottoposto un pre-accordo) «per qualche manciata di tessere in più», non cambia però il risultato e non muta le conseguenze.
I PROSSIMI PASSI Il futuro della compagnia di bandiera, che non è più tale da quando è stata privatizzata, è ora nelle mani del consiglio d'amministrazione che, come accennato, chiederà il commissariamento dell'azienda e in breve la sua messa in liquidazione. Pur rispettando l'esito della consultazione, la vittoria del no viene considerata «una follia» dal governo perché a fronte di qualche sacrificio, l'esecutivo era riuscito a bloccare il primo piano di esuberi presentato a dicembre (4.000 dipendenti in meno) e a convincere gli investitori a mettere sul piatto altri due miliardi. E' quindi probabile che già nella giornata di oggi venga convocato il cda per la richiesta dell'amministrazione straordinaria speciale prevista dalla legge del 2003 e applicata per il crac della Parmalat. Spetterà poi al ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda la nomina di un amministratore che avrà sei mesi per la ricerca di un'acquirente o per la vendita dei singoli asset.
Cessione in sei mesi con lo spezzatino: meno dipendenti, in vendita aerei e rotte
ROMA Spezzatino Alitalia Sai. Con l'arrivo di nuovi acquirenti verrebbe ceduto ciò che resta della ex compagnia di bandiera a prezzi da saldi: rotte, flotta , dipendenti compresi ovviamente. E' questo lo scenario peggiore che si può immaginare dopo l'esito del referendum con la vittoria del No. Una prospettiva ben più drammatica di quella vissuta nel 2008 quando Cai, società guidata da Roberto Colaninno, insieme ad Air France (all'epoca investì 375 milioni), acquistò con uno spezzatino, l'Alitalia pubblica agonizzante, con un taglio di 2.500 dipendenti e con meno rotte e aerei. Tra sei mesi quindi, dopo l'arrivo del commissario, potrebbe esserci un nuovo break-up. A questo punto saranno le compagnie aeree interessate agli asset di Sai a scegliere: tratte, aeromobili e dipendenti ai quali applicare un nuovo contratto con stipendi decurtati.
Questo al termine di un percorso che prende il via stamane quando il cda straordinario di Sai prenderà atto della vittoria del no al referendum tra i dipendenti che fa venir meno una delle condizioni principali poste dalle banche per sostenere il piano di ristrutturazione basato su una manovra di 2 miliardi dei quali circa 900 milioni a carico degli istituti. Dopo il cda dovrebbe tenersi un vertice al Mise, tra Carlo Calenda, Graziano Delrio, Luigi Gubitosi e Enrico Laghi per stringere le fila sull'istanza di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria in continuità con la nomina di 1 o più commissari. Il governo avrebbe scelto ieri, la soluzione tipo Ilva che consentirà ad Alitalia di continuare a volare. L'altra soluzione, più nefasta, quella dell'amministrazione straordinaria liquidatoria, sarebbe stata scartata per il costo sociale e di immagine molto più alto.
Va detto che candidati a fare il commissario sarebbero il presidente designato di Alitalia Gubitosi, ben visto da banche e governo (sembra però che il manager sia molto freddo) e il super consulente Enrico Laghi, che svolge lo stesso ruolo in Ilva, anch'esso gradito dalle banche e dal Mise per il quale nelle ultime settimane ha svolto un lavoro prezioso di tessitura del piano.
PRESTITO DA 350-500 MILIONI L'istanza dovrebbe essere redatta dai consulenti legali della compagnia: a Dla Piper dovrebbero essere aggiunti gli studi Chiomenti e Lombardi Segni e associati. Tra venerdì 28 e martedì 2 maggio l'istanza dovrebbe essere depositata al ministero dello Sviluppo e al tribunale di Civitavecchia, competente per territorio, che dovrà certificare lo stato di insolvenza. Subito dopo ci sarebbe la nomina del commissario da parte di Calenda. Queste sono quindi le condizioni per far volare gli aerei fino alla vendita con spezzatino.
Le banche non sono infatti disponibili a riaprire il rubinetto delle linee di credito per comprare il carburante e pagare gli stipendi. Dovrà intervenire lo Stato, come ha fatto per l'Ilva. Ecco perché in arrivo c'è un provvedimento che stanzia un finanziamento pubblico da 350 a 500 milioni. Attualmente la società avrebbe un'autonomia di cassa per 20 giorni circa: è chiaro che se da oggi il default dovesse inasprire le tensioni con i fornitori che si presentano a Fiumicino per battere cassa, l'autonomia si riduce a un paio di settimane.
Il commissario, tra l'altro, dovrebbe fare efficienze per risparmiare, mettendo mano alle rotte meno redditizie (specie quelle domestiche) e intervenendo sui contratti di leasing degli aerei.