I problemi e le difficoltà dell'Alitalia non sono certo una novità. Già dieci anni fa il mio governo si trovò ad affrontare i drammi della nostra Compagnia di Bandiera, che da sette anni registrava un deficit crescente e che, in modo altrettanto crescente, pesava sul bilancio della Stato e perdeva quote di mercato a causa di strategie sbagliate, della nuova concorrenza da parte delle compagnie low-cost e di una struttura interna appesantita da personale in eccesso e da comportamenti sindacali che ne limitavano eccessivamente la produttività.
Dopo approfondite analisi si decise che occorrevano radicali riforme interne ed un partner capace di aiutare il recupero delle quote di mercato. In una prima fase si individuò come partner ideale la Cina: per noi sarebbe stato un vantaggio enorme il fatto che il più grande generatore di turisti del mondo avesse l'Italia come porta di accesso all'Europa. Per la Cina l'Italia era inoltre lo snodo ideale per i voli verso l'America del sud e del nord e, soprattutto, l'hub più adatto ai legami cinesi con l'Africa, perché localizzato in un paese sicuro, vicino al continente africano ma fuori dal continente stesso. È chiaro che si trattava di una strategia conveniente per entrambi i paesi. Ne parlai lungamente col primo ministro cinese che, dopo aver preso una pausa di riflessione, rispose in modo positivo dando l'autorizzazione a trattare con l'Air China, la maggiore delle tre compagnie aeree nazionali autorizzata ai voli all'estero. Air China esaminò in modo favorevole il dossier ma rispose di non essere pronta a gestire un affare così importante: occorreva ancora qualche anno. Ci rivolgemmo perciò alla Lufthansa perché aveva dato prova di operare in maniera per tutti soddisfacente non solo in una pluralità di aeroporti tedeschi ma anche a Vienna e Zurigo. Sarebbe perciò stato suo interesse completare la rete europea con una forte presenza su Milano e Roma. Su questo possibile accordo arrivò un giudizio positivo sia da parte della Cancelliera tedesca che da parte della massima dirigenza della Lufthansa. Dopo un'accurata analisi e una visita a Roma, il Supervisory Board, struttura preposta alle grandi strategie dell'azienda, mise il veto perché la situazione sindacale e gli esistenti rapporti di lavoro rendevano, a loro giudizio, impossibile il risanamento dell'Alitalia. Restava perciò l'Air France, desiderosa di sfidare, attraverso la presenza nel mercato italiano, la leadership europea della Lufthansa. Furono trattative lunghe e difficili, durante le quali si misero in discussione sia le strategie aziendali che le necessarie riforme interne dell'Alitalia.
Non mancarono naturalmente le reazioni del personale ma, anche per l'intelligenza strategica di Spinetta, consigliere delegato di Air France, si raggiunse infine un equilibrato compromesso. Nel frattempo arrivò la caduta del mio governo e Spinetta, giustamente, pretese che l'accordo ricevesse anche l'assenso del mio successore. Berlusconi, per garantirsi il consenso politico fuori e dentro l'azienda, costruì invece una forzata alleanza di imprenditori italiani, deboli dal punto di vista finanziario e riluttanti a impegnarsi in modo sostenuto perché consapevoli della fragilità del progetto che, dal punto di vista strategico, aveva ben poche speranze di produrre risultati positivi.
La crisi quindi non solo continuò ma si aggravò in modo tale da rendere necessaria un'alleanza che fu conclusa con Etihad. La nuova Alitalia, oltre che a mancanze gestionali, si trovò tuttavia di fronte alla concorrenza dell'alta velocità e ad una maggiore aggressività delle compagnie low-cost nel breve e nel medio raggio. Perdente nel suo mercato tradizionale e senza strategia e risorse per affermarsi nel lungo raggio, il suo deficit ha continuato ad aumentare fino a raggiungere il livello insostenibile di oggi.
Il no dei dipendenti a mettere in atto i cambiamenti richiesti dall'ulteriore deterioramento dei conti, rende ora urgente un intervento ancora più drastico di quello previsto dalle proposte bocciate.
È infatti chiaro che, dopo tanti anni di interventi sbagliati e di perdite crescenti, non è pensabile che lo Stato possa nazionalizzare l'Alitalia, nemmeno se le regole europee lo permettessero.
D'altra parte ogni possibile partner in grado di offrire una soluzione strategicamente conveniente richiederebbe riforme non certo di minore portata rispetto a quelle bocciate dal recente referendum. Ci aspettiamo quindi che coloro che hanno preso la responsabilità di dire no ai necessari cambiamenti si rendano conto che il futuro dell'Alitalia è ora molto più precario di prima perché si sta realizzando quello che il ministro Padoa Schioppa paventava proprio dieci anni fa, cioè che l'Alitalia potesse ricevere la sentenza di morte dal combinato disposto fra l'utilizzazione politica della sua crisi e la mancata intesa sindacale.
Se si vuole che la bandiera della nostra Compagnia di bandiera smetta definitivamente di sventolare non resta quindi che rifiutare la realtà e pensare che qualcuno provvederà a risanare quello che non è risanabile senza sacrifici e senza una strategia per il futuro, quasi certamente legata ad intese con altre compagnie aeree. Anche perché il salvataggio dell'Alitalia con denaro pubblico diventa ogni giorno più impopolare e, per la generalità dei cittadini, è già diventato assai impopolare.