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Data: 04/06/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Verso il voto - Meno collegi e subito pronti per le urne Renzi: il patto tiene. M5S rinuncia alle preferenze ma insiste: ci serve il premio. Sale la quota proporzionale ridotte le pluricandidature

ROMA «Non credo che il patto crollerà». Matteo Renzi si dice convinto che il poker sulla legge elettorale andrà avanti senza che nessuno dei quattro protagonisti (Pd, Fi, M5s e Lega) si sfili.
Ed effettivamente ieri è iniziata la marcia in commissione Affari Costituzionali. Non si è arrivati al voto, ma la strategia di studio reciproco e tensione psicologica è ormai avviata. Spiccano tre emendamenti sui 780 presentati: la proposta che vede tutto il quartetto d'accordo nel ridurre il numero dei collegi da 303 a 232. Questo emendamento è essenzialmente uno scudo per proteggere la legge da eventuali difetti di incostituzionalità: il dubbio sorgeva dal fatto che si potesse non essere eletti pur arrivando primi nel collegio uninominale.

GARANZIE Allo stesso viene garantita l'elezione ai vincitori nei collegi uninominali. Su richiesta di FI, il relatore Emanuele Fiano ha proposto di accantonarlo per «ulteriore approfondimento» nella perimetrazione dei collegi: «Dobbiamo vedere come la legge nuova impatterebbe sui nostri voti», spiegano nell'entourage di Berlusconi, confermando però che «l'accordo politico non si discute».
I collegi sono già pronti. Ed è questa forse la principale novità decisa ieri: si è stabilito infatti di adottare gli stessi usati al Senato con il Mattarellum nel 2001. In questo modo i collegi sono già pronti, senza nemmeno bisogno della delega - prevista nel testo base - al relatore. Insomma, un passaggio in meno per chi punta alle urne quanto prima.
A fronte della riduzione dei collegi, c'è l'aumento delle circoscrizioni. Lo propone il dem Alan Ferrari. Se ne aggiungono due, una quarta in Lombardia e una terza in Veneto. Zone dove la Lega si sfrega già le mani. In questo modo la legge diventa ancora più proporzionale perché aumentano i listini bloccati. Infine, come in Germania, è stato proposto che ci si possa candidare solo in un collegio e in una lista, mentre prima il candidato poteva comparire in ben tre liste. I partiti più piccoli non sono entusiasti, come prevedibile. La soglia, per loro tagliola, del 5% è inaffrontabile e Ap chiede già al presidente Sergio Mattarella di non firmare la legge una volta approvata. In realtà sperano soprattutto di riuscire a sabotare la legge in aula, quando si voterà a scrutinio segreto, approfittando degli scontenti del M5S e dello stesso Pd.
Il patto a quattro però sembra essere inossidabile, almeno sui punti elencati sopra. Altri aspetti invece sono ancora tutti da chiarire. Gli emendamenti che riflettono i relativi desiderata dei partiti sono stati accantonati dal relatore Fiano. Aspetti come il numero delle firme necessarie per presentare le liste; le quote di genere per le liste e i collegi; le pluricandidature che stanno creando una divisione importante (Pd e M5s vorrebbero diminuirle, Fi no); il voto disgiunto tra collegi e listini (lo vuole M5s ma non Fi e Pd) e la prevalenza nella graduatoria di elezione dei candidati nei collegi rispetto a quelli dei listini (c'è un emendamento di Gianni Cuperlo in proposito).
I parlamentari critici sull'accordo con il Pd hanno deciso di fidarsi del collega Danilo Toninelli, ma soprattutto hanno recepito la ramanzina del leader Beppe Grillo. Per cui ieri c'è stata un'apnea generale. La corrente orlandiana del Pd invece ha rumoreggiato contro il partito. Andrea Giorgis ha bocciato i listini bloccati. Dalla sua parte sta Gianni Cuperlo. In tutto questo, proprio Renzi ostenta indifferenza sulla data delle elezioni: «Interessa solo agli addetti ai lavori - ha detto in un'intervista al Sole 24 ore - votare a settembre o a marzo cosa cambia per i cittadini?». «Non credo che il patto crollerà - sottolinea il leader -. Noi saremo molto seri e rigorosi. Lo sbarramento al 5% è un fatto importante per la stabilità del sistema. Comprendo la rabbia politica del ministro Alfano. Comprendo un po' meno la reazione scomposta e gli insulti personali, ma non mi stupisco più di nulla, ormai».

M5S rinuncia alle preferenze ma insiste: ci serve il premio

ROMA «In Germania non ci sono le preferenze» dice Danilo Toninelli, l'election man del M5S. E pazienza se sono state il cavallo di battaglia dei Cinque Stelle da sempre. Toninelli ormai ha deciso di parlare solo la lingua elettorale tedesca per rendere potabile a elettori, e soprattutto ai colleghi in imbarazzo per l'uscita di Grillo, il percorso che sta portando avanti in commissione. C'è il tentativo timido di reintrodurre le preferenze ma è considerata una causa persa, anche perché la selezione del candidato, ricordano i vertici, sarà espletata soprattutto attraverso le parlamentarie online dagli iscritti. E su questo elemento delle preferenze sacrificate è arrivato il ghigno di Ala. «Grillo, 18 maggio: no nominati, sì preferenze. 3 giugno: nessun emendamento per reintrodurre preferenze. Come si cambia...» scrive in un tweet Massimo Parisi, deputato di Ala-Scelta civica e segretario politico di Ala.
Per i portavoce pentastellati ci sono due cerchi di fuoco da superare da qui alle prossime politiche: le parlamentarie online in cui Grillo e Casaleggio dovranno predisporre la competizione interna per poi stabilire l'ordine del listino bloccato e l'uomo o la donna collegio. E poi le elezioni vere e proprie. Il deputato Danilo Toninelli, è cauto: «Non c'è niente di definitivo». L'importante per il M5S è portare avanti l'accordo con il PD sull'impianto tedesco della legge elettorale, e quindi un proporzionale con correttivo maggioritario. «Stiamo lavorando senza sosta per rendere la legge elettorale il più possibile vicina al modello tedesco» ribadisce fino alla nausea. Così Toninelli fissa le linee guida e conferma la volontà di dialogare ancora con il Pd. Il voto di preferenza, da sempre cavallo di battaglia M5S, non è dirimente al momento. Toninelli spiega che si sta lavorando per cancellare le pluricandidature e i capilista privilegiati nell'assegnazione dei seggi. Il voto disgiunto è un altra modifica germanica, utile alla mediazione interna e proficua per acquisire consenso anche in quelle aree geografiche dove il Movimento è ancora debole come il Nord. La legge elettorale così concepita infatti premia il voto utile e con il voto disgiunto il M5S spera di agguantare la simpatia di quegli elettori border line. Ma non sembrano esserci margini per questa modifica, ha detto ieri il relatore alla legge elettorale Emanuele Fiano.
Di Maio dalla Lombardia dove è in tour per le amministrative (al sud è stato solo in Sicilia, l'intero Meridione è stato affidato a ortodossi come Roberto Fico e Nicola Morra) insiste: «Siamo la prima forza politica italiana, non dipende tanto dalla percentuale c'è chi dice al 33% al 30% a noi serve arrivare al 40%». E servono anche le clausole di governabilità, altro punto imprescindibile votato sul blog.


Sale la quota proporzionale ridotte le pluricandidature

ROMA Con gli aggiustamenti di ieri della nuova legge elettorale è aumentato il potere dei partiti (5Stelle compresi) di imporre dei nominati o quello dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti? Secondo gli addetti ai lavori tutto sommato siamo al pari e patta.
Le novità più importanti sono la riduzione del numero dei collegi uninominali da quota 303 a 232 ma contemporaneamente la drastica diminuzione delle pluricandidature che, per definizione, drenano voti in un territorio nascondendo la possibilità di non rappresenterlo.
La prima notizia è pessima se parametrata ai poteri dell'elettore. Com'è noto, il collegio uninominale assegna l'elezione al candidato che prende più voti e dunque a colui che l'elettore ritiene più capace di rappresentare il territorio. Averne persi una settantina è una cattiva notizia anche perché in questo modo si attenua la componente maggioritaria della legge.
La riduzione dei collegi è una cattiva notizia anche per il Pd che considera i propri candidati mediamente più legati al territorio di quelli di altri partiti e si aspetta che proprio i collegi facciano da traino alla propria campagna elettorale. Tuttavia la chiusura della partita sui collegi rafforza la legge perché chiude la polemica sul fatto che nella sua precedente versione, in alcuni rari casi, i vincitori di alcuni collegi non sarebbero stati eletti deputati. Un vulnus secondo alcuni incostituzionale.
La soluzione trovata, ovvero quella di prendere i 232 collegi già utilizzati per il Senato nel 2001, agli occhi di tre dei quattro partiti che stanno trattando sulla legge (Pd, M5S e Lega) ha anche il pregio di accorciare i possibili tempi della transizione verso le elezioni. A questo punto, sul piano tecnico, si tratterebbe solo di definire circa 160 collegi del Senato e tutto sarebbe pronto per l'apertura delle urne.

STOP AGLI SPECCHIETTI Darà molti più poteri agli elettori italiani, invece, la decisione di ridurre le pluricandidature. Il primo testo della legge prevedeva che un candidato potesse presentarsi in un collegio e in tre listini bloccati. L'accordo raggiunto ieri stabilisce invece che ogni candidato possa presentarsi in un collegio e in una sola lista. Questo significa che la ventina di politici di categoria Big che sono abituati a utilizzare le pluricandidature come specchietto delle allodole per gli elettori (famoso il caso di Berlusconi candidato in un tutte le maxicircoscrizioni di una tornata elettorale europea) faranno relativamente pochi danni. D'altra parte la pluricandidatura in un collegio e in un listino è consentita anche dalla legge tedesca che però impone un ulteriore limite: il candidato può scegliere il doppio canale solo in una Regione. In Italia questa limitazione non ci sarà ma non c'è dubbio che la trasparenza del rapporto fra candidati ed elettori sia migliorata.
Nel varo di questa norma, per la quale si sono battuti soprattutto M5S e, più freddamente, il Pd, sembra esserci anche un po' di malizia politica: è evidente che poche pluricandidature danneggiano i partiti medio-piccoli e soprattutto alfaniani e bersaniani che per dimensioni e nascita recente dispongono di personale politico relativamente meno noto.

LA BATTAGLIA SULLE FIRME Gli altri dettagli all'esame ieri della Commissione hanno il sapore degli aggiustamenti tecnici. Ad esempio si sta discutendo di aumentare da 27 a 29 le Circoscrizoni elettorali ad esempio dividendo il Veneto non più in due ma in tre aree. La mossa comporterebbe un leggero aumento dei candidati nominati perché, com'è noto, la graduatoria degli eletti di ogni partito in ogni circoscrizione partirà dal primo nome del listino bloccato. Gli eletti successivi saranno i vincitori di collegio dal più votato in giù e poi si tornerà al listino.
E se a un partito, in una Circoscrizione, venissero attribuiti più seggi dei nomi in listino e degli eventuali vincitori di collegio? In questo caso entrerebbero alla Camera i cosiddetti migliori perdenti nei collegi, ovvero i candidati di quel partito che pur non avendo vinto il seggio hanno preso il più alto numero dei voti fra tutti i collegi della circoscrizione.
Ultimo elemento per valutare la qualità della legge che sta nascendo: la quantità di firme chieste, per presentarsi alle politiche, ai partiti che non erano presenti alle precedenti elezioni. Questo elemento è determinante soprattutto per i piccoli partiti o i parlamentari (molte decine) che hanno lasciato i gruppi nei quali sono stati eletti e vorrebbero tentare la strada della rielezione con nuovi partiti. Su questo punto ieri in Commissione c'è stata battaglia. Anche qui con qualche elemento di malizia dei grandi partiti. Con lo sbarramento del 5% è evidente che più partiti si presentano e più crescerà la quantità di voti che non saranno conteggiati per l'attribuzione dei seggi assegnando un premio nascosto ai grandi. Non va dimenticato che in Germania, alla ultime elezioni del 2013, il 15% dei voti andò in fumo.

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