ROMA E meno male che doveva essere segreto. Il grande tabellone dell'aula della Camera sembra un arcobaleno impazzito, lucette rosse verdi e bianche si accendono e si spengono nel giro di pochi secondi, là dove c'era il rosso (voto secondo indicazione) compare il verde (franco tiratore, tradimento), Laura Boldrini la presidente parla di «incidente tecnico» e fa ripetere la votazione, che in realtà risulta la prosecuzione di quella palese che diventa segreta. La conclusione è che per la nuova legge elettorale simil tedesca suona il de profundis. Morta. Sepolta. Manca solo il funerale.
La legge simil tedesca si è arenata manco a dirlo in Alto Adige, su un emendamento della forzista Biancofiore che pretendeva di non applicare più il sistema al Trentino Alto Adige, cosa che avviene dal 1948, e sul quale M5S ha preannunciato voto a favore, dopo che in commissione si erano invece detti contrari. Le luci verdi sul tabellone sono le loro, quindi per il patto a quattro è naufragio annunciato, da 449 voti sulla carta si scende a 310 aggiungendoci gli assenti giustificati e ingiustificati. E qui fanno irruzione i franchi tiratori: 66 per alcuni, 59 per altri, sempre comunque sufficienti ad affossare la legge. Le provenienze? Un po' dalla Lega (quattro-cinque), un altro po' da Forza Italia (una decina scarsa), un bel po' dal Pd (una quarantina e qualcosa di più). Sicché il combinato disposto della defezione pentastellata e del concorso dei tiratori franchi fanno sì che il Tedeschellum passa a miglior sorte. Kaputt.
FATTORE DUDÙ
«La vostra parola non vale nulla», tuona Ettore Rosato dai banchi del Pd versus M5S. «Vergognatevi, i franchi tiratori sono vostri», replicano dai banchi pentastellati, con Di Maio che abbandona l'aula scuro in volto mentre altri festeggiano, Fico in testa. «Ora fatevi la legge con Berlusconi e Dudù», la battuta non male del comico Grillo ma è la terza se non quarta dopo «decidono gli iscritti». Duro il giudizio di Silvio Berlusconi, che descrivono irritato alquanto con la Biancofiore e riunisce i suoi a palazzo Grazioli: «Avanti con questa legge - detta - o il responsabile sarà Renzi». Non proprio parole da inciucio, come ormai veniva dato per certo da quanti si opponevano e alla legge e al patto, tanto che Renzi riunisce la segreteria, segue gli sviluppi della vicenda al telefono con Rosato, Guerini e Zanda, e alla fine annuncia: «Il Pd ha fatto il possibile, ma i cinquestelle sono inaffidabli, hanno cambiato idea ogni giorno».
Il Pd decide di concentrarsi tutto sulla campagna delle amministrative di domenica, e rinvia ogni altra discussione e decisione a lunedì. Con l'affossamento della legge elettorale viene sepolta anche la speranza (per alcuni), la iattura (per tanti altri) delle elezioni anticipate, sbocco non scritto ma operante del patto a quattro e che aveva suscitato mugugni, perplessità e levate di scudi, ultima quella di Giorgio Napolitano contro il «patto extra costituzionale dei quattro leader fatto solo per le oro convenienze».
LE BORSE FESTEGGIANO
Morta la legge, eutanasia anche per il voto anticipato, con le Borse che festeggiano (Piazza Affari chiude a +1.6). Le decine di franchi tiratori tra le fila dem vanno cercati tra quanti hanno osteggiato fin da subito l'equazione nuova legge uguale elezioni a settembre, tra questi in primis i seguaci di Orlando, accompagnati dai veltroniani e da alcuni ex ppi come Fioroni e Grassi e, pare, dai gentiloniani di stretta e meno stretta osservanza. «Gentiloni ora vada avanti», la promessa di alfaniani e Mdp.
La Caporetto in una fotografia nata dalla gaffe della Boldrini
Mai nella storia parlamentare s'è acceso un tabellone quando non doveva. Mai nella vicenda di Montecitorio s'è visto ciò che è accaduto ieri. Che è un piccolo grande suicidio nel generale suicidio, della lealtà e della professionalità politica e istituzionale, andato in scena ieri. Una foto svela questa sorta di Caporetto. E' l'immagine, diventata subito virale sui social e rimbalzata sui media, del cartellone elettronico pieno di pallini rossi - che significano voto contrario, in questo caso all'emendamento M5S e Forza Italia su cui è saltato l'accordone sulla legge elettorale - ma quelle lucette fanno brillare un risultato che non è il risultato vero e l'esito di uno scrutinio che è uno scrutinio sbagliato. La foto della Caporetto dice che i grillini hanno votato in un modo, a favore del loro emendamento sul sistema elettorale in Trentino, e i democrat in un altro modo, come gli ha appena detto il relatore Fiano: pollice verso (e lucette rosse subito apparse sul tabellone). Ed è la foto di una divisione tra chi credeva di stare insieme e invece insieme non vuole stare. Ma poi s'innesta il giallo.
Quel voto doveva essere segreto ma la presidente Boldrini, apparsa più volte confusa in questa difficile conduzione d'aula, non lo dice. Proprio lei che pochi attimi prima aveva dichiarato ammissibile, su quello stesso emendamento Fraccaro-Biancofiore, lo scrutinio segreto. «Dichiaro aperta la votazione», dice la Boldrini. A quel punto, sul tabellone appaiono le lucine verdi e rosse, come per le votazioni palesi, e non quelle tutte azzurre tipiche del voto segreto. E nel video si vede la scritta «la votazione non risulta a scrutinio segreto». Segue il panico della presidente nell'aula della super-gaffe. In cui i franchi tiratori, pensando che il voto sia davvero palese, avevano finto di essere lealisti schiacciando i pulsanti (rossi per il Pd, rivelatosi il partito più sbandato o più cinico in questa vicenda) e votano secondo le indicazioni di partito in cui non credono. La Boldrini di fronte al tabellone che palesemente si accende grida: «No, è a voto segreto! È a voto segreto! È a voto segreto!». Tre volte. Perché capisce che la credibilità del Parlamento, già a dura prova, sta avendo a causa di questo disguido (o c'è dolo? o la manina del funzionario che ha scritto «votazione palese» è stata mossa dal desiderio di aggiungere sfascio a sfascio?) un altro piccolo grande colpo. La «fisionomia» (così si chiama la scritta video sul tabellone) corregge subito se stessa: «La votazione risulta a scrutinio segreto», si legge adesso. E la Boldrini, imbarazzata: «Cè stato un problema tecnico, avevo già detto che era a voto segreto... allora, va bene, allora colleghi, c'è stato un disguido, il voto è segreto». Viene rifatta la votazione, e la bocciatura dell'emendamento appena sancita dalla foto simbolo si trasforma, nel segreto dell'urna, nell'approvazione dell'emendamento. Come mai?
I franchi tiratori che avrebbero voluto votare sì la prima volta ma per non essere scoperti votano no quando vedono le luci rosse e verdi, al secondo giro in cui possono nascondersi nell'indistinto delle lucette blu del voto segreto si sbizzarriscono. E tra i 59 onorevoli-lupara, i più sono del Pd: chi ce l'ha con Renzi, chi tifa Orlando nel congresso infinito del Pd, chi non vuole andare a votare perché sa che non sarà ricandidato (vera paura trasversale da destra a sinistra: su 630 deputati almeno 500 saranno cambiati non per maturata anzianità ma soprattutto per infedeltà politica). Le anime morte di Montecitorio, ma dotate di ottima mira, su 100 voti segreti previsti avrebbero colpito a ripetizione - ieri sono stati quasi 60 i cecchini - ma su emendamenti più importanti, come preferenze e voto disgiunto voluto dai 5stelle, sarebbero potuti moltiplicarsi in un vero e proprio Vietnam.
60MILA EURO IN PIÙ
E così l'affossamento della legge elettorale significa la prosecuzione di una legislatura ormai data per finita e sei mesi di mandato in più (visto che la Caporetto porta una semi-certezza: che settembre non si vota) il ch equivale a 60 mila euro netti nella tasca di ogni onorevole, sia di quelli lupara sia di quelli (tantissimi) che tifano per loro pur di conservare il posto infischiandosene del patto e del Tedeschellum. E non è che il peone grillino, che ha fatto di tutto per rovinare il gioco Renzi-Grillo-Berlusconi, sia diverso dai suoi simili di altri partiti. Hic manebimus optime è lo slogan trasversale degli anti-pattisti. Per ora hanno vinto loro. E questa è la vera fotografia.
Colle in allarme E si allontana il voto in autunno `
ROMA Raccontano che Sergio Mattarella, per nulla confortato da una telefonata con Matteo Renzi, sia «molto preoccupato» per il naufragio della legge elettorale. Dicono che il capo dello Stato sia anche decisamente amareggiato per il fallimento dell'intesa tra il segretario del Pd, Beppe Grillo, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Un'intesa che aveva auspicato, sollecitato e benedetto, fino a prendere in considerazione le elezioni anticipate il 24 settembre.
Dal Quirinale in ogni caso filtra la paziente attesa del capo dello Stato. La tenue speranza che la prossima settimana - chiuso il primo turno delle elezioni amministrative - in qualche modo possa riprendere il dialogo tra i partiti e di conseguenza il cammino della riforma elettorale. Insomma, calma e gesso. Nessuna precipitazione. Nessuna crisi di nervi. Pur nella consapevolezza che la situazione è appesa a un filo e che la ripresa del confronto è molto, ma molto improbabile.
In queste ore si osservano con grande attenzione sul Colle i segnali dei leader. Ad esempio il fatto che Renzi non abbia twittato, mettendo nero su bianco ciò che hanno detto i suoi: «La legge elettorale è morta». Ma che, anzi, si sia preso una pausa di riflessione. E che Berlusconi, nonostante la débacle di ieri in Aula, predichi ancora la necessità di un accordo. Nessuno però crede (il segretario del Pd l'ha detto chiaramente) in una riforma partorita solo da Pd e Forza Italia. «Ci avevano piacevolmente sorpresi con l'accordo a quattro, non mettiamo limiti alla Provvidenza», sussurra una fonte accreditata. Ma senza troppa convinzione.
I PALETTI
Una cosa comunque è certa. Se i partiti non rispetteranno la richiesta del capo dello Stato di sanare il vulnus costituzionale rendendo omogenei i meccanismi elettorali di Camera e Senato, l'ipotesi delle elezioni in autunno è destinata a tramontare. Si andrà a scadenza naturale della legislatura, come già scommettono i mercati finanziari che hanno festeggiato il naufragio del tedesco con uno spread ai minimi e la Borsa in crescita. L'epilogo, in questo caso, sarebbe un decreto tecnico varato tra dicembre e gennaio (non prima) per rendere omogenei i sistemi elettorali. In primis introducendo la parità di genere anche a palazzo Madama. In serata il Colle fa sapere che ancora non ha aperto il dossier, appunto.
L'approdo al 2018, termine da sempre preferito da Mattarella per scongiurare la rischiosa sovrapposizione tra le elezioni e la delicata sessione di bilancio che inizia il 15 ottobre e termina il 31 dicembre, è condizionato dalla tenuta del governo di Paolo Gentiloni.
Così al Quirinale misurano con preoccupazione il tasso di disgregazione politica, reso ancora più alto dal fallimento dell'intesa a quattro sulla legge elettorale. E con un filo di speranza registrano l'impegno di Angelino Alfano e di Pier Luigi Bersani a garantire lunga vita al governo, sotterrando l'ascia di guerra impugnata dopo l'intesa Pd-FI-M5S-Lega sullo sbarramento al 5%. La prova del nove si avrà la settimana prossima, quando il Senato voterà la manovrina di bilancio. Se Bersani & C. non invertiranno la marcia, rinunciando alla battaglia sui voucher, la crisi sarebbe cosa fatta. Mattarella dovrebbe fronteggiare lo scenario peggiore: il precipitare verso le elezioni senza una legge elettorale omogenea. Ma di questo sul Colle non vogliono neppure parlare.