ROMA La chat per dirsi addio. Poche righe e zero complicanze in diretta. L'usanza (assai discutibile per la verità) è diventata così diffusa da travalicare le relazioni amorose. Ora via chat corrono anche i licenziamenti. E così accade che una trentenne dipendente di una agenzia di viaggi di Catania, si veda comunicare la fine del rapporto di lavoro attraverso poche righe, lapidarie ma inequivoche, inviate nella chat di Whatsapp. Tutto regolare secondo il giudice a cui la donna si era rivolta sostenendo l'illegittimità della risoluzione del contratto.
A esprimersi sulla vicenda è stato il giudice del lavoro del tribunale etneo Mario Fiorentino, che ha ritenuto che «il licenziamento intimato su whatsapp assolve l'onere della forma scritta, trattandosi di un documento informatico» con tanto di prova dell'avvenuta ricezione da parte del destinatario. La ormai più che nota «doppia spunta blu» che testimonia la presa visione del messaggio.
La sentenza catanese è certamente destinata a far discutere. «La volontà di troncare il rapporto spiega il magistrato è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca, come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte». La lavoratrice, presentando ricorso, secondo il giudice, ha ben mostrato di aver compreso le intenzioni del datore di lavoro.
LA STRADA APERTA
Dichiarando inammissibile l'impugnazione della risoluzione del rapporto, Fiorentino cita, poi, una sentenza della Cassazione che apriva già la strada sul punto. «In tema di forma del licenziamento prescritta a pena di inefficacia scrivevano i giudici della Suprema Corte non sussiste per il datore di lavoro l'onere di adoperare formule sacramentali». Perché «la volontà di licenziare deve essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara».
Il magistrato etneo ha dato torto alla dipendente anche su un altro aspetto. I suoi legali avevano sostenuto che il licenziamento fosse viziato pure da un'irregolarità ulteriore. A comunicare il cessato rapporto di lavoro è stato il direttore tecnico e non il datore di lavoro. Per gli avvocati un motivo in più per ritenere il provvedimento comunicato via social illegittimo.
Ha risposto il magistrato : «La dichiarazione di recesso proveniente da organo della società datrice di lavoro sfornito del potere di rappresentanza della medesima può essere efficacemente ratificata dall'organo rappresentativo della società anche in sede di costituzione di giudizio per resistere all'impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore che deduca il detto difetto di rappresentanza». «Nel caso in specie ha aggiunto la sentenza il motivo attinente al presunto difetto di legittimazione deve ritenersi irrilevante».
Torto su tutti i fronti dunque. Ma i difensori della donna non si arrenderanno e faranno ricorso in appello.
GLI APERITIVI
La storia della lavoratrice catanese, però, ha un precedente. Nel 2016 il Tribunale di Genova aveva affrontato un caso analogo: allora a perdere il posto era stato un barista addetto agli aperitivi, licenziato con un conciso sms del principale che gli comunicava: «Non faccio più aperitivi, buona fortuna».
Il magistrato ritenne che «il messaggio, inserito nel contesto dei rapporti intercorsi tra le parti, manifestava chiaramente la volontà della società di risolvere il rapporto». E, come sostiene ora il collega etneo, che l'sms è, in definitiva, un documento informatico, sottoscritto con firma elettronica.