ROMA La crisi economica ha capovolto tutto. Anche le più radicate convinzioni e antiche credenze. Quante volte i nostri genitori ci hanno detto, e noi poi lo abbiamo ripetuto ai nostri figli: «Non perdere tempo, studia, prendi la laurea, prendila con voti alti perché così troverai lavoro più facilmente, e sarà un lavoro ben pagato»? Sbagliato. Un tempo era così, ora non più. Ora i laureati sono quelli che hanno le maggiori difficoltà a trovare lavoro, e il primo impiego (forse anche il secondo e quello successivo) per molti di loro, oltre un terzo, è precario. Va molto meglio a chi invece si è fermato alla scuola dell'obbligo: in questi casi il primo impiego è precario solo per uno su cinque. Sembra una boutade e invece lo dimostrano i freddi numeri dell'Istat, illustrati ieri in audizione alla Camera dal presidente dell'istituto, Giorgio Alleva: «L'occupazione atipica al primo lavoro cresce all'aumentare del titolo di studio, essendo pari al 21,2% per chi ha concluso la scuola dell'obbligo e al 35,4% per chi ha conseguito un titolo di studio universitario».
MITO SFATATO Quattordici punti di differenza che in termini pratici sono una vera voragine. E viene da pensare: quanti litigi, musi lunghi, incomprensioni tra padri e figli, totalmente inutili. Studiare di più, passare ore e ore sui libri anziché andare in giro con gli amici, conseguire la tanto sospirata laurea, non paga.
Mito sfatato, quindi. Ma davvero la laurea non serve più a niente? In realtà vogliamo illuderci che quella precisazione dell'Istat, «al primo lavoro», stia a significare che poi invece si ingrana la quarta. E la laurea inizia a essere la marcia in più che consente di sistemarsi bene. Sicuramente consente di fare lavori altrimenti irraggiungibili. Che poi guadagni di più l'idraulico o l'elettricista rispetto al praticante avvocato o architetto o al ricercatore universitario, in fondo è cosa nota già da tempo.
Tra i dati che il presidente dell'Istat ha illustrato ieri, quello sulle difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro stabile per i nostri laureati, è sicuramente il più sorprendente. Stupisce meno - anche se questo nulla toglie alla tragicità del dato - il fatto che sia la fascia dei giovani, 15-34 anni, a essere costretta a accettare contratti atipici, tanto che «circa 1 occupato su 4 svolge un lavoro a termine o una collaborazione». Una situazione che è andata peggiorando con la crisi economica, ma che in realtà sembra partire da molto prima: «La quota di lavoratori temporanei, già in partenza più consistente fra i giovani, aumenta dal 1997». Poi diventa esplosiva: «Tra il 2008 e il 2016, nella classe 15-34 anni, la quota di dipendenti a termine e collaboratori aumenta di 5,6 punti, dal 22,2% al 27,8%». Per fortuna dopo vari contrattini alla fine chi la dura la vince, visto che nella fascia anagrafica successiva, 35-49 anni, quindi quella degli adulti spesso con famiglia, il precariato nel 2016 ha riguardato solo l'8,9% sul totale degli occupati di quella stessa età.
LA LOTTA DELLE MAMME C'è però un altro dato che lascia quasi basiti: «Tra le donne il 41,5% delle occupate con lavoro atipico è madre». Una scelta per stare dietro ai bambini? Difficile credere che lo sia per una percentuale così alta. Molto più probabilmente il dato conferma la battaglia che le mamme italiane sono costrette a combattere ogni giorno. Siamo certi che se ci fossero più asili e servizi a misura di bambino e famiglia, questa percentuale scenderebbe di molto.
Il TRAGUARDO SI SPOSTA
Il precariato così diffuso tra i giovani è una questione di ingiustizia sociale presente ma si porta dietro un problema ancora più grande nel futuro: al momento del pensionamento queste generazioni si ritroveranno con pensioni quasi da fame. Certamente molto più basse rispetto a quelle dei loro genitori che hanno avuto carriere più regolari e versamenti contributivi adeguati e continuativi. Quando poi riusciranno ad arrivarci alla pensione! Come conferma Alleva, infatti, la linea del traguardo si sta spostando sempre più in avanti. In base agli «scenari demografici» a disposizione «è possibile delineare la futura traiettoria dei requisiti di accesso al pensionamento»: dai «66 anni e 7 mesi, in vigore per tutte le categorie di lavoratori dal 2018, si passerebbe a 67 anni a partire dal 2019». Due anni dopo, nel 2021, serviranno tre mesi in più e così via via, di aggiornamento in aggiornamento, due mesi in più alla volta, nel 2051 si resterà al lavoro fino a pochi mesi prima di spegnere la 70esima candelina: 69 e 9 mesi. Un problema nel problema: perché è chiaro che - a meno di una improbabile lievitazione della torta del mercato del lavoro - più gli anziani sono bloccati al loro posto, meno opportunità si liberano per le giovani generazioni.