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Pescara, 24/07/2024
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Data: 14/07/2017
Testata giornalistica: Il Centro
È record di poveri «Sono quasi 5 milioni». Un milione e 619mila famiglie, è il 7,9% della popolazione residente. Valori triplicati per giovani e minori. Tuona la Cei: la politica si muova. E nel pubblico dirigenti strapagati. Con 350mila euro all’anno, gli italiani secondi solo agli australiani

Un milione 619mila famiglie, pari al 6,3% delle famiglie residenti in Italia, sono in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni e 742mila individui, ovvero il 7,9% dell'intera popolazione. Il dato arriva dall'Istat che ha pubblicato il report «La povertà in Italia» relativo al 2016. Se il numero di famiglie in povertà assoluta torna ai livelli del 2013 (quando erano 1 milione 615mila), il numero degli individui registra invece il valore più alto dal 2005: ciò è avvenuto - spiega l'Istat - perché la povertà assoluta si è ampliata tra le famiglie con 4 componenti e oltre e tra quelle con almeno un minore. Il numero delle persone povere si conferma in crescita nel Centro (da 5,6% del 2015 a 7,3% del 2016) e nel Mezzogiorno, che fa segnare il valore più elevato (9,8%). Tra le persone in povertà assoluta si stima che le donne siano 2 milioni 458mila (7,9%), i minori 1 milione 292mila (12,5%), i giovani di 18-34 anni 1 milione e 17mila (10,0%) e gli anziani 510mila (3,8%). La condizione dei minori è in netto peggioramento - nel 2005, l'incidenza della povertà assoluta era al 3,9% - come quella dei giovani, per i quali il valore è più che triplicato rispetto al 2005 (10,0% contro 3,1%). L’incidenza della povertà assoluta cresce nel tempo anche fra gli adulti tra i 35 e i 64 anni (da 2,7% del 2005 a 7,3%) mentre è in diminuzione tra gli anziani (4,5% nel 2005). Nel 2016 peggiorano le condizioni delle famiglie con tre o più figli minori: l'incidenza della povertà assoluta sale a 26,8% da 18,3%. Si confermano livelli elevati di povertà assoluta per le famiglie con 5 o più componenti (17,2%), soprattutto se coppie con tre o più figli (14,7%). Incide anche il titolo di studio: se la persona di riferimento della famiglia è almeno diplomata, l’incidenza della povertà assoluta è pari a 4%, circa la metà di quella rilevata per chi ha conseguito al massimo la licenza elementare (8,2%). Tra le famiglie degli operai la povertà si attesta a 12,6% (quasi il doppio rispetto al 6,9% di quelle la cui persona di riferimento è un dipendente), e raggiunge il valore massimo tra quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (23,2%). L’incidenza della povertà assoluta si attesta su valori molto elevati tra le famiglie con componenti stranieri: 25,7%, con il Mezzogiorno a sfiorare il 30%. Nel 2016, si stima siano 2 milioni 734mila le famiglie in condizione di povertà relativa (10,6% tra tutte le famiglie residenti), per un totale di 8 milioni 465mila individui (14%). Dati che hanno scatenato molte polemiche: associazioni di consumatori e per i diritti dei minori osservano che i bambini in povertà sono 1 su 8 e che i poveri sono quasi raddoppiati dall'inizio della crisi: erano 2.427.000 nel 2007. «Sono numeri enormi, la politica si muova», ha detto il segretario generale della Cei Nunzio Galantino.

E nel pubblico dirigenti strapagati. Con 350mila euro all’anno, gli italiani secondi solo agli australiani

Dipendenti statali troppo anziani, dirigenti pubblici strapagati e una forte sfiducia dei cittadini nei confronti del governo. Questo il quadro italiano descritto dall’Ocse nell’ultimo report «Uno sguardo sull’amministrazione 2017», un documento biennale in cui l’organizzazione internazionale di studi economici fa il punto sulla situazione dei paesi membri, analizzando vari aspetti delle istituzioni. Il presidente dell’Ocse Angel Gurrìa riconosce che «dieci anni dopo la crisi finanziaria globale, la ripresa economica non è abbastanza forte per produrre un miglioramento durevole o per ridurre le persistenti diseguaglianze ». In un simile contesto, la situazione dell’Italia non sembra essere delle migliori. Numeri alla mano, Roma presenta forti squilibri in diversi settori del pubblico, con conseguenti ripercussioni sulla redistribuzione della ricchezza e dell'impiego. Primo fra tutti quello riguardante l'anzianità dei dipendenti statali. Nel 2015 l'Italia si conferma al primo posto con il 45,4% di impiegati al di sopra dei 55 anni e il 18% sotto i 34. Un primato negativo, soprattutto se confrontato alla media della zona Ocse, dove i lavoratori ultra-55enni sono solamente il 24%. Numeri preoccupanti, che secondo il report potrebbero mettere a rischio le «opportunità di rinnovo» delle amministrazioni. Dati negativi anche per quanto riguarda i livelli di retribuzione. Sempre nel 2015, lo stipendio dei dirigenti pubblici apicali è stato di 347mila euro, contro i 231mila della media. Alti anche i compensi per ruoli di segreteria, pagati 49mila euro, circa tremila in più rispetto al resto della zona Ocse. Più contenute le retribuzioni per i professionisti con competenze specifiche, che hanno percepito 59.500 euro all’anno, una cifra minore se paragonata ai 78mila euro degli altri paesi. Cala anche la fiducia degli italiani nei confronti del governo, ferma al 24%, sei punti in meno rispetto alle stime del 2007, così come l’apprezzamento nei confronti del sistema giudiziario, al 24%, lontano dal 55% riscontrato tra gli stati membri. L'Italia si riprende sulle quote rosa, registrando nel 2015 una presenza femminile nel pubblico impiego tra il 51 e il 52%, un dato in linea con la media, che si attesta al 53%. Un risultato confortante, nonostante nell’intera area Ocse l’occupazione delle donne nel pubblico impiego è al 58% mentre nel privato è al 45%. Stime che, secondo il documento «rispecchiano condizioni di lavoro più flessibili nel settore pubblico rispetto al privato».

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