Non gli piace quasi nulla della politica regionale. Accusa la giunta di non fare le riforme che servono. Di fare elargizioni di soldi e non strategia politica. E da tempo lavora gomito a gomito con il gruppo dei dissidenti (Gerosolimo-Olivieri). Ma l’assessore ai lavori pubblici Donato Di Matteo non ha nessuna intenzione di abbandonare la barca del governatore Luciano D’Alfonso. Lo ha confermato ieri durante una delle rare esternazioni pubbliche durante la conferenza stampa di Giuliano Diodati, l’assessore comunale di Pescara estromesso dal sindaco Marco Alessandrini per fare posto a Gianni Teodoro. «E poi D’Alfonso mi è simpatico, è sempre sorridente, solare», ha aggiunto Di Matteo garantendo che non c’è stata la mano del governatore dietro il siluramento di Diodati. Eppure i rapporti tra l’assessore e il presidente non sono stati sempre idilliaci sul lato personale. Per esempio, ci fu rottura nel 2008, quando D’Alfonso era segretario del Pd e Di Matteo fu fatto fuori dalle liste elettorali delle regionali (su pressione dell’Idv perché era solo indagato e successivamente fu prosciolto) nonostante avesse vinto le primarie di coalizione. «Il giorno in cui fui fatto fuori», racconta Di Matteo «D’Alfonso si presentò a casa mia. Io ero in una fase depressiva colossale e in tv guardavo “Il padrino”. Quando D’Alfonso entrò in casa, il padrino stava dicendo al figlio: “Se mi ammazzeranno, il primo che verrà a salutarti è quello che lo ha ordinato”». Poi nella campagna elettorale del 2014 è cambiato tutto, ha assicurato Di Matteo, «ed è rinato l’amore». Ma molto combattuto. «Sono tre anni che pensano di addomesticarmi. Io sono contro la gestione personale del potere. Per governare un ente ci vuole un’azione collegiale. Perché tutti abbiamo contribuito alla vittoria mettendoci la nostra faccia. Abbiamo dunque il diritto dovere di entrare nelle strategie di questi enti. Ma ero sicuro che sarebbe successo questo. C’è un uomo solo al comando, che ha creato un cerchio magico di persone, che fa provvedimenti completamente impopolari e di danno alla gente. Bisogna invece fare della Regione uno strumento di riforma proiettato a un regionalismo serio, e non un gettonificio in cui tutti i giorni si erogano soldi al primo che arriva e contributi a chi sta più simpatico. Io mi sono sacrificato per cercare di dare una molteplicità di idee al centrosinistra, ma sono stati tre anni di sofferenza. Il 90% dei provvedimenti non li condivido. Soprattutto quelli sulla vita delle persone. Io però sono stato lì seriamente, e resto lì. La grande sconfitta sarebbe se mi dimettessi. Io devo essere cacciato. Perché un irrequieto esponente di questa maggioranza ci deve essere». Ma che cosa critica Di Matteo della politica regionale? Tra le cose che non vanno o che potrebbero andare meglio Di Matteo cita il Masterplan, cioè il piano di investimenti che in Abruzzo porterà in sette anni quasi un miliardo e mezzo di euro. «Sul Masterplan», ha chiarito l’assessore, «sarebbe utile investire 300 milioni per sistemare tutte le strade dell’entroterra. Ecco, questa sarebbe una grande strategia, non quella di rispondere alle esigenze di questo o quel sindaco. Vanno sistemate le strade di tutto l’entroterra. Ma potrei dire lo stesso sul mondo della produttività, sull’edilizia. Ma questa Regione è diventato un ente gestionale», ha insistito l’assessore, «e non abbiamo fatto neanche una riforma degna di questo termine. Le poche riforme pensate sono ferme nei meandri del Consiglio regionale, come la legge di riforma delle case popolari. Invece si eleggono 11 persone per la presidenza delle commissioni per l’assegnazione delle case popolari, con stipendi ridicoli. Non sono buoni esempi in un momento in cui la gente ha un sentimento di sfi ducia verso la politica».
Per questo Di Matteo chiede da tempo una «conferenza programmatica. Dove il protagonista sia il partito principale del centrosinistra. E ai miei compagni dissidenti in Regione dico tutti i giorni che non possiamo essere confusi con questo teatrino. Loro hanno questa bella idea di un grande movimento civico in Abruzzo che porti consenso e anche dissenso nel centrosinistra. Ma dobbiamo fare in modo che questo movimento si strutturi politicamente. Non può apparire come un partito vecchio. Questo è un momento difficile, ci vuole la schiena dritta».