CERNOBBIO Ciò che siamo si vedrà. Per ora: «Non siamo populisti, non siamo estremisti, non siamo anti-europeisti». E ancora: «Vogliamo costruire e non sfasciare». Il grillismo modello affidabilità e seduzione nei confronti dell'establishment si autoriforma così, per bocca di Luigi Di Maio. E sembra irriconoscibile rispetto alla classica predicazione super combat, sostituita da una sorta di neomoderatismo alternativo (ma senza esagerare), che il popolo pentastellato e una parte della classe dirigente del movimento faticheranno a digerire.
IL SET
Ma ormai è il verbo di Di Maio quello che conta. E il set di Cernobbio è quello più adatto ad ospitare la svolta post-populista - se svolta davvero sarà - che il probabile candidato premier M5S ha deciso di imprimere. Consigliato così dal giro Casaleggio: «Luigi non devi presentarti come quello dell'anti-sistema ma come uno che vuole riformare il sistema». Detto, fatto. La formula che lancia a Cernobbio è quella, della Smart Nation: «Faremo un'Italia più veloce, più sburocratizzato, più innovativa, meno costosa e con più posti di lavoro grazie alle nuove tecnologie e alle nuove energie». Rispetto al programma di Di Maio, quello dell'altro leader populista arrivato a Cernobbio, Salvini, è più in linea con la tradizionale neo-leghista: il pugno duro con i migranti, ma soprattutto - anche per rispondere «all'invasione degli stranieri» - incentivare la procreazione autoctona, fare più figli aiutando le famiglie: «In Italia c'è carenza di culle».
CULLE
«Quanti di voi hanno più di due figli?», chiede Salvini al centinaio di presenti al suo speach. Si alzano appena cinque mani. «Vedete?», gongola il leader del Carroccio. Il quale a sua volta ha moderato certi ardori: «Il referendum anti-euro non si può fare, è incostituzionale». E Di Maio: «Il referendum solo come extrema ratio, se le istanze dei Paesi mediterranei non vengono ascoltate dalla Ue». La vera differenza tra i due sta nell'approccio alla legge elettorale. «Si può cambiare», assicura Salvini. Mentre Di Maio prima dice «sono molto scettico che si possa cambiare», e poi strabuzza gli occhi, denunciando paura, quando gli viene chiesto che cosa pensi di un eventuale premio di maggioranza alla coalizione. Meccanismo che si potrebbe rivelare distruttivo per le sorti elettorali di M5S. In una logica di coalizione, all'interno della quale comunque «vedremo se prendo più voti io o Berlusconi», è ormai perfettamente calato invece Salvini. E fa sapere: «Non c'è nessun problema nel centrodestra, per l'alleanza con Forza Italia è tutto a posto, dobbiamo soltanto metterci a scrivere il programma comune e lo faremo tra poco».
Di Maio invece sa che il 24 settembre sarà incoronato candidato premier nella festa pentastellata di Rimini. Giusto ieri Alessandro Di Battista ha assicurato che ci saranno anche altri competitor, fose lui stesso, chissà, valuterà. Intanto Di Maio assicura - per evitare la figuraccia di Roma dove la squadra ancora non si è ben capito qual è - che «successivamente presenteremo la lista dei ministri». Ma le difficoltà a trovare nomi disponibili a farne parte è già cominciata, anche se questo Giggino non lo dice. E Salvini: «Sono qui, per parlare con gli imprenditori da pari a pari. Non sento alcuna sudditanza».
Però né lui né di Maio, guarda caso, a Cernobbio infieriscono su Gentiloni, assurto a una sorta di genius loci, sennò prenderebbero i fischi al posto degli applausi più di cortesia che di convinzione riscossi quassù.