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Pescara, 24/07/2024
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Data: 23/10/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Effetto Zaia, il «big bang» riapre i giochi a destra: terremo i 9/10 delle tasse. Parte il tavolo, il governo: si tratta ma non sul fisco

VENEZIA Alle sette di sera il governatore Luca Zaia può rilassarsi. Il quorum è raggiunto, la vittoria è in cassaforte. «E' fatta», dice ai suoi il presidente della Regione, asserragliato nel quartier generale di Palazzo Balbi. Alla fine si arriva al 58%. E' un plebiscito, il trionfo che voleva. Sul referendum per l'autonomia c'è il suo nome, ne ha fatto una battaglia di identità di popolo e i veneti hanno risposto. «E' il big bang delle istituzioni, è come il muro di Berlino. E mi piace pensare che a farlo cadere sia stata la mia gente. Apriamo una stagione che diventerà endemica, questa partita non finirà qua», afferma. Mai come oggi vale il motto coniato per lui, ricalcando la pubblicità di un pollo: «Dove c'è Zaia, c'è gioia».
BATTUTI I LUMBARD Il consenso è arrivato, il quorum che pareva un ostacolo si è rivelato una spinta in più. Zaia un po' lo temeva, tanto che negli ultimi mesi ha macinato migliaia di chilometri in una campagna a tappeto. Era la sua scommessa, l'ha vinta. E vale doppio, perché è una moneta d'oro spendibile a livello locale ma anche nazionale. E' lui, oggi, l'uomo forte della Lega che sfonda oltre gli indipendentisti, un nuovo potenziale leader del centrodestra in costruzione, assai più gradito a Silvio Berlusconi rispetto a Matteo Salvini. Zaia si schermisce: «Nessuna prospettiva nazionale e nessuna volontà di muovermi da qui. A Roma ti prendono le misure e se pensano che io possa avere possibilità alle prossime politiche penalizzano il mio Veneto». Intanto il governatore può andare all'incasso e la sua soddisfazione è anche un po' maliziosa: mentre il Pirellone è alle prese con il collasso del sistema elettronico, qui nei 4.739 seggi riforniti di schede, timbri e matite copiative tutto fila liscio. «Abbiamo battuto gli efficienti lumbard», gongolano i consiglieri regionali riuniti in attesa dei risultati.
Pensano già a quei 15 milioni di euro di residuo fiscale che, giurano, non prenderanno più la strada per Roma. E gran parte del merito, riconoscono, va proprio al governatore che per l'autonomia è salito sulle barricate. «Siamo cinque milioni di abitanti, abbiamo 600 mila imprese e un fatturato di 150 miliardi - ricorda Zaia - io credo che Roma dovrebbe portarci rispetto. Chiederemo tutte le 23 materie, i nove decimi delle tasse e il federalismo fiscale». Per il presidente sono arrivate troupe di Al Jazeera, della tv russa e di Barcellona. Venezia è una Catalogna in scala minore, che riesce anche a portare a casa il risultato. Due anni fa alcuni consiglieri sono andati in viaggio studio ad assistere al referendum interno catalano sull'indipendenza. Facevate le prove? «Ma no, questa è una cosa diversa - ripetono - noi restiamo nell'ambito della Costituzione. Però...». Però? «Oggi sui volti dei veneti ho visto gli stessi sorrisi», spiega il consigliere Stefano Valdegamberi. E' lui che nel 2013 ha presentato il disegno di legge sull'indipendenza, cassato e trasformato in voto sull'autonomia. «Abbiamo gettato il sasso nello stagno». E adesso «andiamo a trattare», si tira su le maniche il governatore.
La vittoria è soprattutto sua. Al secondo mandato in Veneto, la poltrona di presidente è più solida che mai e grazie all'investitura del referendum diventa l'uomo di punta della Lega. Oltre che interlocutore gradito a Berlusconi, come si diceva, nella faticosa costruzione dell'alleanza FI-Carroccio. I toni e molte posizioni di Salvini sono sopra le righe per il bacino medio moderato di elettori del Cav, con Zaia se ne vanno le felpe e arriva il doppiopetto, l'opposizione arrembante lascia il posto all'esperienza di governo: già ministro dell'Agricoltura e poi a capo della Regione, sa quali sono le battaglie per le quali spendersi. Il referendum, appunto. Se Maroni aveva la strada spianata con il (seppur tiepido) appoggio dei sindaci Pd, in Veneto gli avversari hanno fatto sul serio. I non vontanti hanno scatenato la polemica sul rischio di essere schedati dalla regione, gli antagonisti hanno lanciato fumogeni contro il gazebo di Treviso. Acqua passata, sorride ora Zaia. Prima di mezzanotte sale sul palco per prendersi gli applausi: «Il Veneto non sarà più quello di prima».


Parte il tavolo, il governo: si tratta ma non sul fisco

ROMA E ora? In tema di referendum regionali per ora una sola cosa è sicura: in qualunque modo sia misurata la portata politica dell'evento fra governo e regioni, non si parlerà mai di autonomia fiscale. Perché? Il fatto è che la Costituzione (articoli 116 e 117) non prevede questa materia fra quelle di competenza delle Regioni a statuto ordinario. Per consentire che la Lombardia o il Veneto o l'Emilia o qualcuna delle altre 12 regioni ordinarie possano «tenersi le tasse prodotte sul territorio» bisognerebbe cambiare la Costituzione. Il che - anche dopo l'esperienza del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre - appare una strada senza sbocco.
L'OBIETTIVO Il bello è che anche l'obiettivo politico dichiarato dal governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ex ministro nei governi Berlusconi, ovvero quello di «esercitare un'energica azione politica al fine di ottenere un'ancora più ampia competenza da declinare sul proprio territorio in materia di sicurezza, immigrazione ed ordine pubblico», appare poco concreta. Anche queste tre materie sono un'esclusiva dello Stato. E allora a cosa sono serviti questi referendum consultivi? Politicamente ognuno può tirare le somme che desidera, ma sul piano tecnico la Costituzione è molto chiara attribuendo alle Regioni un raggio d'azione in un elenco dettagliato di 23 comparti che spaziano dai rapporti con l'Ue all'energia alle grandi reti di trasporto e persino alla previdenza complementare e alle casse di risparmio e rurali e al credito fondiario. Attenzione però: la Carta fissa anche dei paletti perché stabilisce che le Regioni ordinarie possono fissare delle regole in questi settori ma dentro una cornice nazionale.
In concreto dunque Lombardia e Veneto, come del resto ha già fatto l'Emilia Romagna con una semplice lettera, dopo il referendum potranno ottenere dal governo l'apertura di un tavolo di trattativa per un aumento del grado di autonomia su alcune materie. I governatori Maroni e Zaia hanno già detto che vogliono ampliare il raggio d'azione di Lombardia e Veneto. Maroni ha annunciato che scriverà subito al governo con l'obiettivo di chiudere la trattativa entro Natale poiché il governo «deve rispondere entro 60 giorni». Se non fosse che per il governo la procedura è quella seguita dalla regione Emilia Romagna e che il referendum è solo uno spreco di soldi. Ovvero una delibera di giunta che chiede di aprire un tavolo di negoziato.
Al termine della consultazione arriva la replica di Palazzo Chigi affidata al sottosegretario Gianclaudio Bressa: «L'esito del referendum in Lombardia e Veneto conferma l'importante richiesta di maggiore autonomia per le rispettive regioni. Il governo, come ha sempre dichiarato anche prima del voto - prosegue - è pronto ad avviare una trattativa» «per definire le condizioni e le forme di maggiore autonomia e le relative, necessarie, risorse finanziarie, come del resto sta già avvenendo con la regione Emilia Romagna, che ha già approvato una legge di attuazione dell'articolo 116 comma III della Costituzione». Stessa posizione quella del sottosegretario all'Economia Pier Paolo Baretta: «Il governo aveva proposto ben prima del referendum di avviare il negoziato. È bene che esso si avvi al più presto». Come dire che non serviva tutta questa messinscena per arrivare al punto dove un'altra regione è già giunta. Più fumo che arrosto, dunque? Le domande che ora attendono risposta sono: cosa faranno le regioni Veneto e Lombardia? E l'eventuale tavolo di trattativa si trasformerà nell'ennesimo palcoscenico sul quale fare campagna elettorale o si entrerà davvero nel merito dei temi referendari rischiando di uscire dai radar dell'opinione pubblica?

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