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Data: 26/10/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Pensioni, il Pd: «Rinviare i 67 anni» La Consulta: mini-rivalutazione ok

ROMA Niente da fare per i pensionati che avendo un assegno superiore a 1.405 euro mensili lordi negli anni 2012 e 2013 si erano visti bloccare completamente la rivalutazione della pensione a seguito dei provvedimenti di emergenza del governo Monti. Qualcosa potrebbe cambiare invece per chi nel 2019 dovrebbe rinviare di cinque mesi l'uscita dal lavoro: cresce nel Pd la pressione per sospendere l'adeguamento automatico alla speranza di vita.
Sull'indicizzazione degli assegni si è espressa ancora la Corte costituzionale, che due anni fa aveva dichiarato illegittimo il taglio totale dell'adeguamento all'inflazione; ieri invece ha promosso il decreto legge 65 del 2015 con cui l'esecutivo dell'epoca era corso ai ripari. Un provvedimento che restituiva solo parzialmente gli arretrati non percepiti (in misura inferiore al 30 per cento) e sempre in misura limitata adeguava la pensione futura. La Consulta (relatore Silvana Sciarra, come in precedenza) ha ritenuto che stavolta ci sia «un bilanciamento non irragionevole» tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica. In altre parole, se togliere ai pensionati l'intero importo della perequazione era illegittimo e ledeva i loro diritti costituzionali, riconoscerne solo una parte è invece possibile perché in questo modo viene contemporaneamente tutelata un'altra esigenza costituzionale, quella di salvaguardare i conti pubblici nell'interesse di tutti i contribuenti. In effetti lo stesso governo nel 2015 aveva quantificato in 17,6 miliardi l'impatto finanziario, solo per quell'anno, di un'applicazione integrale della sentenza. Il decreto si limitava a spenderne 2,2.
I RICORSI
La decisione dei giudici costituzionali non è naturalmente piaciuta a chi aveva fatto ricorso e ai sindacati; i potenziali interessati erano circa 6 milioni. Ma in queste ore c'è un'altra scelta importante che il governo deve fare in tema di previdenza: riguarda appunto il tema dell'adeguamento dei requisiti per la pensione alla speranza di vita. Dopo che l'Istat ha confermato l'incremento tra il 2013 e il 2016 (che comporta un aumento di cinque mesi) deve essere adottato entro fine anno il provvedimento che fissa dal 2019 questo scatto, che per l'età della vecchiaia significa il passaggio da 66 anni e 7 mesi a 67 tondi. Si tratta di un atto dovuto, che potrebbe venir meno solo in caso di una legge che modifichi l'attuale normativa. Il governo si era detto contrario con il premier Gentiloni e il ministro dell'Economia Padoan. Ieri si è espresso per il rinvio il vicesegretario Martina, che è anche ministro delle Politiche agricole. A tarda sera anche Matteo Renzi ha detto di sperare in «soluzioni alternative». Sulla stessa linea esponenti di aree diverse del partito, da Guerini a Cuperlo. Tutti sottolineano che l'adeguamento all'aspettativa di vita non può essere uguale per i vari mestieri, ma andrebbe differenziata. Questa pressione potrebbe concretizzarsi già in un emendamento parlamentare alla legge di Bilancio. Intanto l'Inps continua ad aggiustare l'Ape sociale, l'anticipo pensionistico che permette proprio di lasciare il lavoro prima dell'età della vecchiaia, a certe condizioni: ieri è stato chiarito che lavori di durata inferiore ai sei mesi non interrompono lo stato di disoccupazione, che è una delle condizioni per accedere all'Ape.

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