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Data: 07/12/2017
Testata giornalistica: Il Messaggero
Alleanze, Pisapia si ritira e Alfano non si ricandida: salta il puzzle di Renzi. «Levo alibi a chi insulta» Lo strappo di Angelino

ROMA Pisapia lascia, Alfano non si candida, e per il Nazareno è tutto da rifare. O quasi. Sicuramente la coalizione tanto agognata, e perseguita anche a costo di una legge elettorale che ha lasciato morti e feriti sul campo, non c'è più. Tanto che Arturo Parisi, prodiano di ferro e fondatore del Pd, manda sms del tipo: «Dobbiamo toglierci gli scarpini da città e indossare gli scarponi chiodati di montagna, per un sentiero faticoso, molto diverso da quello previsto dall'attuale legge elettorale». Per alcuni un rebus, ma una cosa è chiara: Prodi e prodiani non benedicono alcuna operazione di divisione, se anche considerano Matteo Renzi non estraneo ad alcuni esiti attuali, certamente non vedono bene, di più, aborrono, l'operazione Grasso lanciata a Roma domenica scorsa.
LA BREVE STAGIONE
Lapidario il commento di Renzi, colto di sorpresa, con i suoi: «Finisce una lunga telenovela, ora pensiamo alla campagna elettorale». Si conclude come i più prevedevano la breve stagione del rientro politico di Giuliano Pisapia. L'«uomo tormentato», come lo ha definito D'Alema, ha riunito i fedelissimi per l'ultima volta in un albergo romano, ha sentito i pareri, ha capito come e dove andavano a parare, e a un certo punto ha scandito: «Prendo atto che ci sono sensibilità diverse», quindi ha ribadito che non si candiderà, ha dato un'altra botta al Pd, «confronto impossibile», accusandolo di non aver voluto mettere subito in calendario la legge sullo ius soli e ha di fatto sciolto Campo progressista. Ognuno per la sua strada. E così sarà: gli ex Sel come Ferrara e Furfaro come figliol prodighi ritornano con i vecchi compagni ora con Grasso; tutti gli altri, i centristi di Tabacci, Sanza e Monaco, i verdi, il sindaco cagliaritano Zedda, Smeriglio e il suo nutrito gruppo romano che sostiene Zingaretti alla regione, sono adesso in forzata marcia verso il Pd. In avvicinamento a Liberiuguali, se non già alla mèta, viene data Laura Boldrini. Qualche esegeta machiavellico ha interpretato il pressing di Liberiuguali su Pisapia, consci che il filo si sarebbe spezzato, come una manovra volta a stoppare sul nascere l'ipotesi di una presidente della Camera che si sarebbe schierata con Campo progressista assumendone la leadership al posto di Pisapia.
«Stabilito che Renzi ha ormai capacità coalizionale pari a zero, io comunque con Grasso e gli altri non ho proprio nulla da spartire», spiega Bruno Tabacci, «vuol dire che d'ora in poi farò più chilometri in bicicletta», chiosa Tabacci ricordando la sua fama di grimpeur. «Qui è tutto rovesciato, vince chi ha torto e perde chi ha ragione», dice a sua volta Franco Monaco, a-renziano e prodiano: «Il Pd si è condannato all'isolamento e la sinistra si è rassegnata al minoritarismo». Resta che la coalizione di centrosinistra, al momento, è monca a sinistra. «Siamo molto preoccupati, siamo sul ciglio del burrone», l'Sos dai toni tragici lanciato dalla sinistra interna dem. Qualcuno che ha visto sondaggi e proiezioni spiega che «adesso, da soli, ci danno vincenti in 42 collegi, ma alleati con Mdp e gli altri ne avremmo preso 112». Che è proprio la ragione per la quale D'Alema e Bersani hanno voluto fare la lista Grasso.
FATTORE CITTADINANZA
Al Pd respingono all'unisono la tesi che causa della rottura sia stato lo Ius soli. «Politicamente era nell'aria da qualche tempo, e alla fine ognuno ha sentito odore di casa ed è voluto tornare a casa, complice il proporzionale», la tesi di Lele Fiano. Altri dem fanno notare che lo ius soli rimane obiettivo della legislatura, «ma forzare per metterlo subito in calendario avrebbe voluto dire né più né meno che andare alla crisi di governo, viste le profonde divisioni e con l'opposizione e con settori di maggioranza». Nella classica giornata da sciame sismico, dopo la rottura a sinistra arriva anche l'incrinatura pesante al centro. Con una lettera «al presidente del Consiglio» (e non a Renzi), Alfano annuncia che salta un giro, non si candida alle prossime elezioni «ma non abbandono la politica, c'è una vita fuori dal palazzo e io me ne riprendo un pezzo». C'è l'amarezza personale e ci sono i dissapori, se non di più, con Renzi. Ma anche qui, c'è la politica: Ap era e rimane divisa sulle prospettive. E il Pd? Nessuno s'è azzardato a parafrasare il togliattiano «Pisapia se n'è ghiuto e soli ci ha lasciati». Amarezza e dispiacere si sono sprecati all'indirizzo dell'ex sindaco di Milano, lo hanno fatto Fassino, Richetti, Zanda, Pollastrini. Più determinata Maria Elena Boschi: «Ci dispiace, ma il Pd non può inseguire tutti. Vedrete, prendremo il 30% e tanti collegi». Il Pd va avanti con la coalizione di centrosinistra, ci sono i radicali, i verdi, i socialisti, oltre ai centristi.

«Levo alibi a chi insulta» Lo strappo di Angelino

L'ultima telefonata, prima di chiudersi nel salotto di Porta a Porta e dare l'annuncio, Angelino Alfano l'ha fatta a Paolo Gentiloni: «Ho deciso di non ricandidarmi, lascio il Parlamento. Farò politica fuori dal palazzo». Il premier, agganciato il telefono, ha confidato ai suoi: «E' una decisione presa con il cuore. Angelino merita il massimo rispetto, continueremo a lavorare insieme fino al termine della legislatura».
Il passo indietro del ministro degli Esteri e leader di Alternativa popolare (Ap) ha colto tutti di sorpresa. Perfino Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi non sapevano che Alfano meditasse lo strappo. Tant'è che appena le agenzie hanno battuto la notizia, è scattata la convocazione della segreteria nella sede del Governo Vecchio.
Lì, davanti agli amici di partito sotto choc, il ministro (che conserverà la presidenza di Ap) ha raccontato la sua amarezza: «Sono stanco di essere il bersaglio di tutti e di tutto». Stanco dell'aut aut di Giuliano Pisapia («o lui o me nell'alleanza») che, ironia del destino, proprio nello stesso momento ha annunciato il ritiro. Stufo di «essere chiamato traditore», degli attacchi di Salvini, delle diffidenze di Berlusconi. «Non è possibile che tutto ciò che ho fatto e abbiamo fatto insieme, strappando il Paese dalla crisi economica accettando di farci carico dell'onere del governo anche per fermare i populisti», ha spiegato, «debba essere sempre ricondotto al poltronismo e all'opportunismo. Basta. Ho deciso di dare un taglio e dunque non mi ricandido. Tolgo così l'alibi a chi mi insulta e vi insulta ingiustamente».
La Lorenzin si è detta «estremamente dispiaciuta»: «Sappiamo bene quanto sia stato difficile il tuo lavoro in questi anni». Fabrizio Cicchitto ha parlato di «atto straordinario», di «una risposta bruciante a tutti coloro che ti hanno attaccato».
Poi, però, al Governo Vecchio è stato servito l'antipasto della resa dei conti che verrà celebrata lunedì all'hotel Flora, quando Ap dovrà decidere se correre da sola, tornare verso Forza Italia o stringere l'alleanza con il Pd.
Molti, da Cicchitto a Bianconi, da Chiavaroli a Viceconte, hanno spinto perché scatti l'alleanza con Renzi. E hanno proposto la Lorenzin come candidata premier di Ap. Ma la ministra della Salute ha frenato. Ha detto di pretendere l'unità del partito su questa opzione.
LA SCELTA DELLE ALLEANZE
Il rischio-deflagrazione è alto. Concreto. Lupi si è detto convinto che «Ap possa aggregare». Ha fatto riferimento al movimento di Stefano Parisi. In realtà, molti scommettono che l'approdo possa essere Forza Italia. E Berlusconi, che ha definito «apprezzabile» la decisione di Alfano, ha già lanciato l'amo: «Le porte sono aperte».
Avance e litigi a parte, in famiglia Alfano all'annuncio hanno festeggiato. «Mia moglie è entusiasta delle decisione», ha confidato il ministro, deciso a riprendersi «un pezzo della mia vita fuori dal palazzo». Scelta dolorosa e difficile, perché la politica è stata la sua vita. A vent'anni è tra i giovani democristiani di Agrigento, sua città natale. A ventiquattro, affascinato da Berlusconi e dal progetto per un'Italia liberale, passa con Forza Italia. Nel 2001 sbarca a Montecitorio e in poco tempo entra nella cerchia ristretta del Cavaliere. Poco più che trentenne gli viene appiccicata addosso la qualifica di delfino e nel 2008 diventa ministro della Giustizia. E' suo il famoso lodo che sospendeva i processi per la durata del mandato al premier e ai presidenti della Repubblica, del Senato e della Camera.
Nel 2011 il grande salto: segretario del Popolo delle libertà. Poi l'ingresso (da ministro degli Interni) nella larga coalizione guidata da Enrico Letta. E, due anni più tardi, la scissione dal Pdl con la nascita del Nuovo centrodestra per tenere in piedi il governo dopo lo strappo di Berlusconi. Una scelta che Alfano ha difeso anche ieri annunciando l'addio al Parlamento: «Non mi ricandido per dimostrare che tutto quello che io e i tanti amici che mi hanno seguito in questi anni abbiamo fatto, è stato solo dettato da una sincera e fortissima convinzione di aiutare il Paese». Sulla decisione ha pesato anche l'amarezza per ciò che è successo in Sicilia: «Angelino ha sofferto per i voltafaccia nell'Isola», racconta un suo amico, «con dieci consiglieri regionali su quattordici passati sul fronte della destra. Ecco, annunciando che non si ricandida, ha voluto dare uno schiaffo anche a questi opportunisti».

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