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Data: 27/01/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Liste, il Pd si spacca Renzi blinda i suoi scontro con Orlando

ROMA Riunioni fatte e subito smentite (Renzi con Orlando). Minacce di disimpegno, di strappi, di non candidarsi (Orlando). Direzione che slitta in continuazione manco fosse un bob sulla neve. E' stato un parto dolorosissimo, il varo delle liste del Pd. Con il segretario determinato a far valere la propria leadership, più che per imporre i suoi, a loro volta sforbiciati qui e là, per varare delle liste non solo frutto delle mediazioni con i capibastone. «Le liste non troveranno la totale condivisione, ma è giusto che un'assemblea democratica dia la propria valutazione», ha annunciato il segretario poco prima dell'una di notte.
Che lo scontro fosse sanguinoso, Andrea Orlando lo ha capito quando si è sentito porre da Renzi tre dischi rossi su altrettante candidature dell'area: «Non voglio né Martella, né Lo Giudice, né Damiano». La notizia è trapelata, così come i nomi, e a quel punto il braccio di ferro è diventato tremendo, non riguardava più le quote, ma i nomi stessi, con corollario di veti. Non si ricorda, a memoria storica, un leader che mettesse voce non sulla quantità ma sulla qualità dei candidati. Tant'è che a notte, quando con una nota congiunta Orlando, Emiliano e Cuperlo hanno chiesto un time-out (prima facci vedere le liste, poi si apre la Direzione), sia Damiano che Martella erano dati come candidati.
IL FILOSOFO
«Matteo non accetta che il Pd sia il luogo di mediazione con i capibastone, qui si sta giocando il futuro stesso del Pd, quel che dovrà diventare dopo le elezioni», nota un renziano della prima ora. E Beppe Vacca, filosofo della sinistra ora convintamente renziano, spiega: «Bisogna capire e farsene una ragione, con il proporzionale il Pd non è destinato a essere quel che è stato finora, i tempi di Prodi, delle coalizioni forzate, sono tramontati».
La partita è il futuro del partito, ma nel frattempo Orlando minaccia lo strappo, al punto che era pure circolata la voce che fosse pronto a fare fagotto e andarsene dal Pd. La voce gira però pochi minuti, fino a quando si apprende che il Guardasigilli ha minacciato più che altro la sua eventuale non ricandidatura in segno di dissenso forte, rompendo così il fronte dei ministri tutti schierati per la causa del Pd. Il braccio di ferro è estenuante, la quadra non si trova, fino a che gira la voce che il compromesso potrebbe essere una rinuncia di Martella a ricandidarsi, mentre Damiano e Lo Giudice verrebbero salvati. Problemi anche con Dario Franceschini, Maurizio Martina e Matteo Orfini, ma questa volta solo sul numero dei candidabili più che sui nomi. Lo scontro politico riguarda l'area cattolica, dove Renzi sembra puntare più sugli apporti di chi viene da altri lidi (Casini, Lorenzin) che sui rappresentanti interni.
Dall'area di Dario sono già andati via Piero Martino, passato con Leu, non si ricandida Francesco Saverio Garofani, molto vicino al Quirinale, mentre la componente ex popolare perde uno dei suoi big come Beppe Fioroni, dato per fuori. «I centristi che vengono da altre parti valgono doppio, un voto in meno per Berlusconi e uno in più per noi», spiegano al Nazareno. Ma Beatrice Lorenzin non se ne mostra convinta, almeno finora. I collegi offerti non vengono ritenuti sicuri né in grado di garantire sicurezza: prima le avevano offerto Lucca, adesso Modena, ma niente da fare, sicché la ministra della Salute continua a punzecchiare il Nazareno: «Se le cose con Renzi vanno male, valuteremo se confermare l'alleanza con il Pd». Un posto nel proporzionale a Roma lo ha liberato Roberto Giachetti, che riconferma la sua fama di sfidaiolo e scrive a Renzi: «Mi candido solo nel collegio, senza paracadute». Non finisce bene anche per l'ex vicesegretaria, Debora Serracchiani che finisce in un collegio tutt'altro che sicuro.

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