Lo dicono tutti ma non conviene a nessuno: tornare al voto dopo il voto è l’ennesima promessa che i leader non potranno né vorranno mantenere. L’idea che in caso di «pareggio» si debba rifare la sfida è un esercizio muscolare da campagna elettorale, un espediente che oggi serve ai capi-partito per esorcizzare il timore di rimanere esclusi domani dal gioco del governo. Da Berlusconi a Di Maio, da Renzi a Salvini e giù fino a D’Alema, sarebbe un rischio non partecipare al risiko per Palazzo Chigi: ognuno di loro dovrebbe infatti fronteggiare i contraccolpi dell’isolamento, equivalente del fallimento. «Pericolo frana» è il cartello posto dappertutto.
A partire dal Nazareno. In attesa di verificare se il segretario riuscirà a raggiungere o quantomeno avvicinare «quota 25», nel Pd si discute se il futuro sarà «con lui o senza lui». Non a caso «lui», che pure ambisce a rifare il premier, si è trasferito al Senato insieme alla gran parte dei fedelissimi: nella peggiore delle ipotesi, grazie a quella enclave, sarebbe comunque determinante per qualsiasi soluzione. Se invece tentasse la scorciatoia del voto, Renzi dovrebbe prima render conto del risultato che ha condotto al vicolo cieco. Ché poi è la stessa condizione in cui versa il candidato premier del M5S. Il profilo dato alla sua campagna elettorale, e le liste che ha presentato, sono una sorta di all in dell’ala governista. È da oltre un anno che Di Maio lavora al progetto, già nel marzo del 2017 anticipò la trasformazione del Movimento: «Vinceremo e dimostreremo di essere una forza capace di coalizzare in Parlamento». E l’eventuale successo si trasformerebbe in sconfitta se M5S — in qualche modo — non entrasse nella stanza dei bottoni. L’ala movimentista è lì che lo attende al varco. Il futuro, insomma, non può essere ipotecato. Da nessuno. E può darsi che Berlusconi sia sincero quando sostiene di voler tornare alle urne, se la sfida finisse pari. L’otto marzo la sua pena sarà definitivamente estinta e da quel momento potrà chiedere ai giudici la riabilitazione, che farebbe cessare gli effetti della legge Severino: così potrebbe ricandidarsi per Palazzo Chigi.
Nell’attesa, però, le dinamiche nella sua coalizione e persino nel suo partito somigliano allo spostamento di faglie tettoniche. Giorni fa, durante un comizio a Venezia, Brunetta è arrivato a dire che l’alleanza con la Lega «è un momento di passaggio verso un soggetto unitario di centrodestra». Una linea eretica, bandita dal catechismo di Arcore, perché sancirebbe il superamento della leadership berlusconiana. E non c’è dubbio che il Rosatellum sia funzionale al disegno, perciò il Cavaliere — a meno di non potersi ricandidare a premier — non avrebbe interesse ad assecondare il ritorno alle urne con l’attuale legge elettorale. E magari la permanenza di Gentiloni a Palazzo Chigi si protrarrebbe in attesa di far saltare il bunker di Salvini e dar vita a un progetto più solido. Ambizioni diverse, stesso interesse: perché è chiaro che la linea del «professionista» D’Alema per un «governo del presidente» porterebbe il cartello di sinistra allo scioglimento dopo il 4 marzo. E l’ira verso l’ex premier monta dentro Leu: «Si è sempre sentito qualcuno e ora si sente già qualcosa». Tutti vogliono giocare al risiko di Palazzo Chigi. Al bivio, saranno le urne a stabilire quale strada verrà presa. L’idea del governo di unità nazionale, sostenuta da Minniti, non è solo un altolà alle mire di Renzi e alle asfittiche larghe intese con Berlusconi: è il preannuncio di un terremoto, passerebbe per la scomposizione e ricomposizione del quadro politico e l’onda d’urto colpirebbe ogni partito. Resta da capire cosa farebbe Di Maio. È una variabile di non poco conto, da aggiungere agli altri margini di imprevedibilità.