BOLOGNA Chi lo chiama governo di unità nazionale, chi governo del presidente cioè Mattarella, chi governissimo. E tutti, da Minniti a Gentiloni, da Grasso a D'Alema, e così anche in casa berlusconiana, sottolineano che no: non si tratta delle larghe intese, anche perché quello schema alla tedesca in eventuale salsa italiana, Pd più Forza Italia, difficilmente stando ai sondaggi avrebbe i numeri per vede la luce.
COMPLIMENTI
Quando sul palco di Bologna, ieri, Paolo Gentiloni ha fatto i complimenti a Confindustria - «Ho apprezzato lo spirito costruttivo degli industriali per una seconda stagione di riforme» mantenendo in piedi Jobs Act e Fornero e rifiutando la Flat Tax - parlava del post 4 marzo e di fatto dell'ipotesi al momento sempre più condivisa, se non dovesse vincere nessuno: il governo di tutti. Quello che anche Renzi, senza dirlo pubblicamente, comincia a prendere sempre più in considerazione. Così come Berlusconi.
Il Cavaliere pensava di arrivare a 15 giorni dal voto con qualche punto in percentuale in più, magari al 20. E se è vero che Silvio è l'uomo delle rimonte last minute, è anche vero che ogni giorno di più vede le difficoltà non solo numeriche di un eventuale esecutivo di centrodestra e un governissimo a guida Tajani non solo non gli dispiacerebbe ma non lo esclude proprio. Avrebbe ai suoi occhi il pregio di rassicurare l'Europa che in questa fase per Silvio il merkeliano è importantissimo.
Addirittura Romano Prodi, nemicissimo delle larghe intese, potrebbe farsi piacere un governo del presidente guidato da Gentiloni, per cui ha appena espresso un super-endorsement, e limitato all'approvazione a inizio legislatura di una legge elettorale diversissima dal Rosatellum. Ognuno lo declina a modo suo l'eventuale governissimo. E al netto dei 5 stelle, ma ormai è un partito friabile, e della Lega (Salvini: «Mai e poi mai»), questa extrema ratio si fa largo ovunque e anche in Liberi e Uguali che su questo, nel caso, finirà per scindersi con la fuoriuscita di Fratoianni e Covati. Non solo D'Alema, a cui queste operazioni trasversali sono sempre piaciute, per primo disse «non le larghe intese, ma una convergenza di tutti per obiettivi limitati si può fare», ma ora anche Grasso - che ieri ha sparato contro l'ipotesi Pd più Forza Italia - a un esecutivo del presidente non avrebbe la voglia né il coraggio dire di no.
La forza, ancora molto aleatoria e del tutto supposta, di un governissimo sembra poggiarsi sull'indisponibilità, e questa è l'unica certezza, di affrontare da parte dei neo eletti un immediato ritorno alle urne a poca distanza dal 4 marzo. Questo vale molto per i 5 stelle. «Noi siamo pronti a sparare contro la grande ammucchiata, e non vediamo l'ora», mostra i muscoli Di Maio. Ma i responsabili pentastellati, quelli che darebbero supporto al governissimo, sembrano esserci e non sono solo quelli, già anticipatamente iscritti al gruppo misto, che saranno eletti pur essendo fuori da M5S a causa delle truffa sui rimborsi. Gli esterni presi dalla società civile e messi in lista da Di Maio - tra i quali spiccano iper moderati specialmente al Sud, di provenienza democristiana, notabilare o di centrodestra: dal lanciatissimo imprenditore irpino Michele Gubitosa che doveva diventare il patron dell'Avellino calcio al presidente ex berlusconiano del Potenza, Caiata - appaiono governisti nel Dna. Per non dire di uno come il comandante De Falco, l'anti-Schettino della Costa Concordia, che dice: «A me va bene tutto ciò che va bene alla patria». E che cosa c'è di più patriottico di un governo di unità nazionale?
MALE MINORE
Come male minore, gli ambienti che contano - basti leggere il nuovo libro Un Paese senza leader del direttore del Corriere della sera, Luciano Fontana, che si conclude con un'adesione sia pure amara a questa opzione - prendono in considerazione il governissimo. Che magari non ci sarà. Ma non è affatto detto che le altre altre ipotesi siano meno improbabili di questa.