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Data: 18/02/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Il modello unità nazionale si allarga anche nel M5S c'è la voglia di dire sì

BOLOGNA Chi lo chiama governo di unità nazionale, chi governo del presidente cioè Mattarella, chi governissimo. E tutti, da Minniti a Gentiloni, da Grasso a D'Alema, e così anche in casa berlusconiana, sottolineano che no: non si tratta delle larghe intese, anche perché quello schema alla tedesca in eventuale salsa italiana, Pd più Forza Italia, difficilmente stando ai sondaggi avrebbe i numeri per vede la luce.
COMPLIMENTI
Quando sul palco di Bologna, ieri, Paolo Gentiloni ha fatto i complimenti a Confindustria - «Ho apprezzato lo spirito costruttivo degli industriali per una seconda stagione di riforme» mantenendo in piedi Jobs Act e Fornero e rifiutando la Flat Tax - parlava del post 4 marzo e di fatto dell'ipotesi al momento sempre più condivisa, se non dovesse vincere nessuno: il governo di tutti. Quello che anche Renzi, senza dirlo pubblicamente, comincia a prendere sempre più in considerazione. Così come Berlusconi.
Il Cavaliere pensava di arrivare a 15 giorni dal voto con qualche punto in percentuale in più, magari al 20. E se è vero che Silvio è l'uomo delle rimonte last minute, è anche vero che ogni giorno di più vede le difficoltà non solo numeriche di un eventuale esecutivo di centrodestra e un governissimo a guida Tajani non solo non gli dispiacerebbe ma non lo esclude proprio. Avrebbe ai suoi occhi il pregio di rassicurare l'Europa che in questa fase per Silvio il merkeliano è importantissimo.
Addirittura Romano Prodi, nemicissimo delle larghe intese, potrebbe farsi piacere un governo del presidente guidato da Gentiloni, per cui ha appena espresso un super-endorsement, e limitato all'approvazione a inizio legislatura di una legge elettorale diversissima dal Rosatellum. Ognuno lo declina a modo suo l'eventuale governissimo. E al netto dei 5 stelle, ma ormai è un partito friabile, e della Lega (Salvini: «Mai e poi mai»), questa extrema ratio si fa largo ovunque e anche in Liberi e Uguali che su questo, nel caso, finirà per scindersi con la fuoriuscita di Fratoianni e Covati. Non solo D'Alema, a cui queste operazioni trasversali sono sempre piaciute, per primo disse «non le larghe intese, ma una convergenza di tutti per obiettivi limitati si può fare», ma ora anche Grasso - che ieri ha sparato contro l'ipotesi Pd più Forza Italia - a un esecutivo del presidente non avrebbe la voglia né il coraggio dire di no.
La forza, ancora molto aleatoria e del tutto supposta, di un governissimo sembra poggiarsi sull'indisponibilità, e questa è l'unica certezza, di affrontare da parte dei neo eletti un immediato ritorno alle urne a poca distanza dal 4 marzo. Questo vale molto per i 5 stelle. «Noi siamo pronti a sparare contro la grande ammucchiata, e non vediamo l'ora», mostra i muscoli Di Maio. Ma i responsabili pentastellati, quelli che darebbero supporto al governissimo, sembrano esserci e non sono solo quelli, già anticipatamente iscritti al gruppo misto, che saranno eletti pur essendo fuori da M5S a causa delle truffa sui rimborsi. Gli esterni presi dalla società civile e messi in lista da Di Maio - tra i quali spiccano iper moderati specialmente al Sud, di provenienza democristiana, notabilare o di centrodestra: dal lanciatissimo imprenditore irpino Michele Gubitosa che doveva diventare il patron dell'Avellino calcio al presidente ex berlusconiano del Potenza, Caiata - appaiono governisti nel Dna. Per non dire di uno come il comandante De Falco, l'anti-Schettino della Costa Concordia, che dice: «A me va bene tutto ciò che va bene alla patria». E che cosa c'è di più patriottico di un governo di unità nazionale?
MALE MINORE
Come male minore, gli ambienti che contano - basti leggere il nuovo libro Un Paese senza leader del direttore del Corriere della sera, Luciano Fontana, che si conclude con un'adesione sia pure amara a questa opzione - prendono in considerazione il governissimo. Che magari non ci sarà. Ma non è affatto detto che le altre altre ipotesi siano meno improbabili di questa.

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