ROMA Un'intesa che vuole rilanciare la contrattazione e il ruolo delle parti sociali, ammaccato negli ultimi anni, e in questa chiave gioca d'anticipo per mettere in fuorigioco l'ipotesi di un salario minimo fissato per legge. L'accordo Confindustria e sindacati lo hanno siglato nella notte tra martedì e mercoledì al termine di una trattativa lunghissima e a pochi giorni dalle elezioni e dal possibile stallo del dopo voto. Anche se per la firma definitiva bisognerà ancora attendere il 9 marzo, perché serve il via libera degli organismi direttivi di Cgil, Cisl e Uil.
Sul delicato nodo della rappresentanza, l'intesa conferma la volontà di attuare l'accordo interconfederale che era stato raggiunto nel gennaio 2014, in forma di testo unico, chiedendo allo stesso tempo alla istituzioni di muoversi sul piano normativo per la parte di loro competenza. Una novità importante sta nel dichiarato intento di misurare anche la rappresentatività delle parti datoriali oltre a quella dei sindacati. Questo assetto, una volta completato, dovrebbe permettere di contrastare il fenomeno del cosiddetto dumping salariale, ovvero la firma di contratti ad hoc tra organizzazioni poco o pochissimo rappresentative, che hanno l'obiettivo principale di ridurre i diritti dei lavoratori. Non è un caso che il Cnel abbia classificato in questa categoria due terzi dei ben 868 contratti nazionali esistenti attualmente. C'è poi il tema ugualmente cruciale del modello contrattuale. Vengono salvaguardati gli attuali due livelli, quello nazionale e quello decentrato (aziendale o territoriale). Ma fermo restando il compito del contratto nazionale di fissare le regole ed il trattamento economico comuni per la generalità dei lavoratori, sarà possibile definire in modo flessibile lo spazio da dare al secondo livello, con l'obiettivo di favorire la produttività valorizzando le specificità dell'impresa o del territorio. Si tratta insomma di un modello flessibile.
LA SVOLTA
In particolare a livello nazionale verranno definiti sia il trattamento economico minimo (Tem) che quello complessivo (Tec), dato dalla somma del primo, che corrisponde all'attuale minimo tabellare, e delle altre voci di retribuzione, eventualmente legate alla produttività ed anche erogate non in forma monetaria ma attraverso prestazioni di welfare. Finora invece l'obiettivo del primo livello era garantire la difesa del potere d'acquisto dei lavoratori e dunque aveva come riferimento essenziale l'andamento dei prezzi.
Nel testo si parla anche di welfare aziendale. Confindustria e sindacati convengono sulla necessità di salvaguardare il carattere universale del welfare pubblico, erogato dallo Stato o dagli enti territoriali: quello aziendale dovrà essere integrativo e non sostitutivo, con priorità su alcune tipologie di prestazioni: previdenza complementare, assistenza sanitaria, tutela della non autosufficienza e welfare sociale.
I tre segretari generali hanno salutato la svolta con soddisfazione, al pari del presidente di Confindustria. Il testo «realizza un importante quadro di certezze nelle relazioni sindacali in una stagione di grande confusione» commenta la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso sintetizzandone poi il senso politico che a suo avviso è «un netto no a qualsiasi intervento legislativo sul salario». Per Annamaria Furlan, numero uno della Cisl, l'intesa è «un vero piano di sviluppo per il sistema-paese» che «indica con chiarezza la strada della partecipazione dei lavoratori». Parla di «un grande traguardo» raggiunto «insieme al rinnovo di tutti i contratti del pubblico impiego» il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo. Confindustria evidenzia invece «l'importante passo in avanti compiuto con Cgil, Cisl, Uil sulla strada che porta a più moderne relazioni industriali». Si rallegra anche il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che definisce l'accordo «incoraggiante» e sottolinea «il metodo del coinvolgimento delle diverse parti sociali e dei corpi intermedi».
Contrattazione tra le realtà rappresentative
La fotografia della situazione è stata scattata dal Cnel, il sopravvissuto Consiglio nazionale per l'economia e il lavoro che ha tra i suoi compiti il censimento dei contratti esistenti: ebbene se ne contano a livello nazionale ben 868, che però per circa due terzi rappresentano secondo lo stesso Cnel scappatoie messe a punto con l'obiettivo di peggiorare la condizione dei lavoratori e sottoscritte da sigle poco rappresentative. L'intesa punta a combattere questa forma di dumping rafforzando la rappresentatività, inclusa quella - che però dovrà essere misurata - delle parti datoriali.
Produttività da incentivare in azienda
La discussione sul potenziamento del secondo livello contrattuale è in corso da molti anni in Italia. La soluzione delineata nell'intesa raggiunta ieri prevede un modello flessibile, aperto: il ruolo del livello nazionale viene confermato e sotto certi aspetti anche rafforzato; allo stesso tempo però si lascia spazio ad intese che nelle singole categorie leghino più strettamente il trattamento economico complessivo ai guadagni di produttività e di innovazione possibili nelle varie realtà. Insomma una soluzione di compromesso la cui rilevanza dipenderà dall'attuazione concreta.
Retribuzione: livello minimo e complessivo
Nel contratto nazionale entrano due distinte nozioni di trattamento salariale: il trattamento economico minimo (Tem), che corrisponde a quello che oggi è il minimo tabellare e verrà rivalutato in base all'andamento dei prezzi misurati attraverso lo specifico indice Ipca. Nel trattamento economico complessivo confluiranno oltre al minimo anche le voci economiche comuni per tutte le lavoratrici e i lavoratori dei diversi settori comprese le possibili forme di welfare (ad esempio previdenza complementare o assistenza sanitaria) e le quote di produttività eventualmente distribuite a livello nazionale.