Segni particolari: scompaiono dalla bacheca Facebook la foto del voto di domenica, lui in completo blu in posa con gli scrutatori, e prima volta nella storia social del governatore, scompare anche il santo del giorno che aveva accompagnato ogni sua scorribanda pre e post elettorale. Comincia così il giorno della sconfitta per il presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso: certo, lui non perde, anzi vince il seggio da senatore ma c’è poco da stare allegri con la mazzata riportata dal Pd che in Abruzzo sprofonda al 13,9 per cento come la Margherita dei vecchi tempi. Eppure lui aveva promesso a Matteo Renzi che gli avrebbe portato in dote un bel pacco di voti e che dall’Abruzzo lo avrebbe aiutato a compensare l’erosione di voti. Invece l’Abruzzo si sveglia completamente giallo, con qualche traccia di blu, che sono i due seggi del Senato vinti da Gaetano Quagliariello e Antonio Martino del centrodestra.
E dopo un tira e molla durato tutto il giorno, me ne vado anzi no, resto, devo decidere, forse sì forse no, mica posso decidere solo io, alla fine Dalfy esce allo scoperto: se ne andrà.
“Come sono abituato a fare, onorerò il mandato popolare che ho ricevuto per rappresentare le esigenze dell’Abruzzo a Roma. Non appena la mia elezione sarà convalidata, si aprirà il procedimento previsto dalla norma per risolvere la questione dell’incompatibilità”,
ha scritto ieri sera su Facebook. Per il resto, l’analisi della sconfitta è copiata pari pari dalle parole di Matteo Renzi: chi ha vinto sono state le forze populisti e anti europee, scenari preoccupanti e neppure una parola di autocritica. Muto anche il segretario regionale del Pd Marco Rapino, di cui Michele Fina, collaboratore del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha invocato le dimissioni.
Nessuna analisi, neppure una parola sul partito ridotto a un tappetino al servizio della Regione, alle candidature imposte da lui, ai cavalli senatori, alle segretarie senatrici, al massacro di regole e di democrazia degli ultimi anni.
In ogni caso se ne andrà e alla Regione si tornerà a votare: a quell’appuntamento il Pd e il centrosinistra si presenteranno ridotti in macerie.
Il Pd abruzzese sta sotto di cinque punti rispetto al risultato nazionale, per Dalfy comunque è una sconfitta pesantissima che sporca l’immagine del vincitore e dell’acchiappa-voti. In Abruzzo sono venute a mancare fette consistenti di elettorato perché, come era prevedibile e in parte annunciato, pezzi importanti di classe dirigente del Pd si sono organizzati non tanto per non andare a votare, ma addirittura per votare contro. Lo hanno fatto a Teramo, all’Aquila, a Pescara, lo hanno fatto elettori storici del Pd e autorevoli pezzi di classe dirigente. D’altronde è impensabile umiliare parlamentari, aspiranti candidati, amministratori e militanti e poi sperare di conservarne il voto. E’ solo un caso probabilmente che a Roccamorice, paese dell’assessore Donato Di Matteo che solo un mese fa ha annunciato l’uscita dal gruppo Pd, il Movimento 5 stelle abbia riportato al Senato il 51,5 per cento e alla Camera il 52,7.
E se diamo uno sguardo alle tabelle (sopra), il tonfo del Pd appare in tutto il suo splendore: dal 33,5 del 2008 alla Camera al 22,6 del 2013, al 32,4 delle Europee del 2014 fino al 13,82 di quest’anno. Quasi venti punti percentuali in meno rispetto a dieci anni fa. Perde anche il centrodestra che nel 2008 partiva con il 43,2 per cento, passando per il 29,5 del 2013 e il 30,3 del 2014, fino al 35,53 di oggi.
Vola invece il Movimento 5 stelle che parte con un 29,9 nel 2013, passa per un 29,7 alle Europee e approda al 39,85 per cento di quest’anno.
Al Senato stesso trend: il Pd parte col 33,9 e arriva al 13,97. Il centrodestra parte dal 43,6 e arriva al 36,38 di oggi. Con Grillo che guadagna più di 10 punti, dal 28,4 del 2013 al 39,29 di oggi. Senza differenze sostanziali tra Camera e Senato: non è vero quindi che il Movimento viene premiato dai giovanissimi.
Tanti i trombati illustri di questa tornata elettorale: il primo della serie è l’ex governatore Gianni Chiodi, che pur di strappare una candidatura non ha esitato nel giro di un pomeriggio a lasciare Berlusconi per abbracciare Fitto. Ma è stato punito: niente seggio. Non ce l’ha fatta neppure Guerino Testa, la giovane promessa di Fratelli d’Italia, ormai alla seconda sonora bocciatura: prima come candidato sindaco, ora come parlamentare. E la sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli, bocciata pesantemente e non solo per essersi schierata con Renzi e D’Alfonso.