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Pescara, 24/07/2024
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Data: 06/03/2018
Testata giornalistica: Il Messaggero
Gli sconfitti - Frana Pd, Renzi: lascio ma dopo il governo. Stop all'asse con M5S. L'irritazione di Gentiloni. Tra i dem scoppia la rivolta

ROMA «Mi dimetto, ma non adesso». Matteo Renzi, nel giorno della «sconfitta netta, chiara, evidente», conia una nuova formula: le dimissioni differite. Una mossa per poter continuare a dare le carte da qui alla formazione del prossimo governo, spinto del sospetto che qualche capocorrente - non solo Emiliano e Orlando, ma anche tra i franceschiniani e i prodiani - punti all'accordo con i Cinquestelle. Per trattare sulle presidenze di Camera e Senato. In più, in caso di elezioni anticipate, restare alla guida del Nazareno conservando il potere di comporre le liste.
L'annuncio arriva dopo una notte e una giornata di passione. Stretto d'assedio da Dario Franceschini e Andrea Orlando, da Marco Minniti e Graziano Delrio, il segretario a metà mattina è pronto alle dimissioni. Si parla già di una reggenza affidata al vicesegretario Maurizio Martina e di un'assemblea nazionale per eleggere il nuovo leader entro un mese. Scelto perfino il candidato: il ministro Delrio. Tant'è, che la notizia dell'addio rimbalza su agenzie e tv.
Poi, però, scatta il pressing dei suoi, dei componenti del Giglio Magico. Francesco Bonifazi e Lorenzo Guerini, Maria Elena Boschi e Luca Lotti, cominciano a martellare Renzi: «Se lasci adesso il partito sarebbe senza guida in una fase cruciale». Commento di un renziano ormai disincantato: «La verità è hanno preso gusto al potere e puntano a qualche vicepresidenza di qualche Camera. E se al comando c'è ancora Renzi, hanno qualche chance di agguantare qualche posto. Se Matteo lascia si ritrovano turisti in giro per Roma».
LA GRANDE FRENATA
Vero? Di certo c'è che il portavoce Marco Agnoletti a fine mattina smentisce le dimissioni: «A noi non risulta». E la conferenza stampa fissata per le cinque di pomeriggio slitta di oltre un'ora. Passate le sei Renzi si presenta davanti a telecamere e taccuini.
Il copione è molto diverso da quello che si aspettano Franceschini & C. Renzi ammette la sconfitta, ma addebita la responsabilità a Mattarella e a Paolo Gentiloni pur senza citarli: «L'errore principale è stato di non capire che dovevamo votare nell'aprile scorso o in settembre, le due finestre in cui sono andate alle urne Francia e Germania». Di più, puntando l'indice contro la presunta irrilevanza dell'azione del governo: «Il simbolo di questa campagna deludente è il collegio di Pesaro. Lì avevamo messo Minniti che ha cambiato le politiche dell'immigrazione ma è stato sconfitto dal candidato dei cinquestelle, il signor Cecconi, che era stato giudicato impresentabile dagli stessi grillini» perché aveva barato sui rimborsi «ed era scappato e se n'era andato in vacanza. Eppure ha vinto lo stesso».
Il passo successivo è l'annuncio dell'addio. Ma, appunto, in differita: «E' ovvio che dopo questo risultato lascio la guida del Pd. Com'è previsto dallo statuto, ho chiesto al presidente Orfini di convocare l'assemblea nazionale e di aprire la fase congressuale. Questo però accadrà al termine dell'insediamento delle Camere e della formazione del nuovo governo». E per anticipare le critiche e lo sgomento degli alleati di partito, Renzi spiega la scelta attaccando: «Non è possibile evitare un confronto vero dentro al Pd su ciò che è accaduto in questi mesi e anni. Un congresso serio e risolutivo. Per questo dico no a un reggente scelto da un caminetto e sì a un segretario eletto con le primarie».
Da lì a breve scatta la rivolta. Tutti a parlare di «dimissioni fantasma». Di «segretario rinchiuso nel bunker». Guerini prova a metterci una pezza: «Nessuna dilazione, le dimissioni di Renzi sono verissime. Lunedì faremo la Direzione nazionale e lì apriremo una riflessione seria». Ma neppure lunedì scatterà l'ora dell'addio: le dimissioni saranno valide solo quando ratificate dall'Assemblea.
L'altro paletto fissato da Renzi è il no a sostenere un governo dei Cinquestelle che, invece, qualche capo corrente a suo giudizio sponsorizza: «Sono garante di un impegno morale e politico. Non faremo mai un governo con gli estremisti. Da Salvini e Di Maio si dividono il sentimento anti-europeo, la loro anti-politica e l'utilizzo dell'odio verbale. Ci hanno chiamato corrotti, mafiosi. E allora sapete che c'è? Si facciano il governo da soli, senza di noi. Il nostro posto è l'opposizione, non fare inciuci». Per finire un accenno personale, per dare credibilità all'annuncio delle dimissioni: «Cosa farò? Terminata la fase dell'insediamento delle Camere farò il senatore semplice. Il militante tra i militanti». Chissà.

L'irritazione di Gentiloni Tra i dem scoppia la rivolta

ROMA Non poteva finire peggio. Il crollo del Pd, la dimissioni fantasma di Matteo Renzi, le accuse del segretario a Sergio Mattarella e a Paolo Gentiloni rei di avergli impedito di andare alle elezioni l'anno scorso, il no a un governo con i Cinquestelle, innescano la bagarre. Tutti contro tutti. E tutti in armi. Con i big del partito che tagliano i ponti con il segretario.
E' una giornata buia per il Partito democratico. E non solo perché in meno di 4 anni i consensi si sono dimezzati: dal 40% delle europee al 18% di ieri. Complice il clima pesante del Nazareno, i veleni e i sospetti, ma soprattutto le accuse di Renzi al premier e al capo dello Stato, innescano la reazione di Gentiloni e il gelo del Quirinale. «Sono sconcertato», fa sapere ai suoi il presidente del Consiglio, «uno può decidere di dare o non dare le dimissioni. Ma è inaccettabile che chi ha perso le elezioni addossi la colpa a me e al capo dello Stato perché gli avremmo impedito di votare in aprile o nel settembre scorsi. Non solo, ora la responsabilità sarebbe anche di Minniti che non ha saputo vincere il suo collegio a Pesaro».
Proprio nei minuti in cui Gentiloni confida il suo sconcerto, Dario Franceschini, Marco Minniti, Graziano Delrio, Andrea Orlando e Luigi Zanda che avevano chiesto «collegialità» nella gestione della fase post-elettorale, decidono di reagire. In mattinata era stato raggiunto un simil-accordo per le dimissioni immediate e poi la reggenza al vicesegretario Maurizio Martina o al presidente Matteo Orfini. Invece, in conferenza stampa, alle sei di sera Renzi annuncia le dimissioni differite. Valide solo dopo che si sarà formato il nuovo governo e dopo che l'assemblea nazionale del partito le avrà ratificate. E attacca gli ormai ex alleati: «Il prossimo segretario sarà scelto con un congresso vero, con le primarie. Non da caminetti ristretti di chi immagina il Pd solo come luogo di confronto tra i gruppi dirigenti».
LA RIVOLTA
A impugnare la penna per stroncare la mossa del segretario è Zanda, il capogruppo uscente in Senato molto vicino a Gentiloni e a Mattarella: «La decisione di Renzi è incomprensibile, le dimissioni di un leader sono una cosa seria. O si danno o non si danno e quando si decide di darle si danno senza manovre. Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi, lo hanno fatto e basta. Un minuto dopo non erano più segretari».
La rivolta esplode. Ecco Anna Finocchiaro: «Annunciare le dimissioni e non darle dopo una sconfitta di queste dimissioni è da irresponsabili». Ecco Orlando ed Emiliano: «Renzi si è chiuso nel bunker ed è ambiguo, siamo davanti alle dimissioni non dimissioni. Subito il congresso!». Al coro si unisce il ministro Carlo Calenda: «Non commento il percorso congressuale e il timing delle dimissioni» non essendo del Pd, «ma trovo fuori dal mondo l'idea che ha responsabilità della sconfitta sia di Gentiloni e di Mattarella».
A sentire Renzi e i suoi, la decisione di rendere operative le dimissioni solo dopo il via libera al nuovo governo serve «ad evitare inciuci e impedire che vengano ratificati accordi già siglati sottobanco con i Cinquestelle. La prova? Un attimo dopo la conferenza stampa del segretario, il grillino Di Battista si è gettato a capofitto nella mischia accusando Matteo di frantumare il Pd». E afferma Gennaro Migliore: «Bisogna avere il coraggio di fare contestazioni sul merito e non sul metodo. Il contenuto principale della posizione di Renzi è quello di rispettare il risultato delle elezioni e di andare all'opposizione. Se questo è il punto che si vuole mettere in discussione lo si dica con chiarezza. Un'eventuale nuova collocazione del Pd (stampella del M5S o responsabile per far nascere il governo di Salvini) la può decidere solo un congresso».
IL NODO DEL M5S
Insomma, è guerra. Ed è guerra sul rapporto con i Cinquestelle. Sul «senso di responsabilità» che negli ultimi anni ha spinto il Pd a sostenere prima il governo di Mario Monti, poi quello di Enrico Letta e di Gentiloni. «Ma ora la nostra responsabilità sarà quella di stare all'opposizione», scandisce Renzi, quasi a voler stoppare un eventuale pressing di Mattarella a sostenere un esecutivo a guida grillina o leghista.
In più, sullo sfondo e neppure tanto, c'è il nodo della segreteria. Renzi si tiene stretti i galloni di leader per sostenere al congresso (si farà se non si andrà sparati a nuove elezioni) un suo fedelissimo. Ma ci sono Minniti e Delrio che scaldano i muscoli. E c'è Nicola Zingaretti che, forte della vittoria nel Lazio, sarebbe pronto a scendere in campo. Con un atout: è l'unico ad aver vinto nella Waterloo dem e a poter ripartire dalle macerie. Con un problema: difficile sommare l'incarico di governatore a quello di segretario.

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