Il senatore degli Abruzzi: così gli piacerebbe essere chiamato, ammette sorridente Luciano D’Alfonso nella conferenza stampa di ieri mattina convocata per spiegare quando e come ci sarà il trasferimento a Roma, e non è tanto quell’Abruzzo declinato al plurale che fa effetto ma quell’articolo determinativo, proprio quel’”il” come se fosse il solo e l’unico. Invece, l’Abruzzo di senatori ne ha eletti sette, con molte più speranze di far parte di una maggioranza di governo. Ma si sa, neppure la sconfitta, così forte così eclatante così straordinariamente sua, che lui pure ammette all’inizio ma perchè altro proprio non poteva fare, riesce a far rientrare nei ranghi una personalità così debordante e arrogante.
Ma per la verità anche gli “Abruzzi” rappresentano un colpo al cuore e sono demolitivi di 40 anni di regionalismo: l’ego smisurato porta Dalfy a rimangiarsi la sua stessa storia e cultura, lui che si è sempre ritenuto l’interprete della grande stagione della programmazione regionale che aveva come primo obiettivo proprio il riequilibrio e come risultato l’Abruzzo, come è scritto nello Statuto, scivola sul plurale. Una deriva da vicerè, altro che senatore.
Deve attendere la convalida, spiega didascalico ai giornalisti presenti, tutti confinati nelle ultime file perché alle conferenze del governatore i primi posti sono tutti occupati dagli staffisti e dai suoi sostenitori (con molte facce affrante, per la verità), visto che lui sarà pure “il senatore degli Abruzzi” ma per diventarlo davvero non basta l’elezione ma occorre la convalida. Nel frattempo farà il governatore a tempo pieno. Quindi fa sfoggio della sua cultura di diritto costituzionale, citando Costantino Mortati e abbandonandosi a un cacofonico “inveramento”:
“Lasciare la guida della Regione? Io devo prima determinare l’inveramento delle condizioni per diventare senatore. Da quel momento scatta il dies a quo”.
Poi, non pago, nel giorno della maggiore estroflessione muscolare, narcisisticamente pubblica la convalida di senatore di Benedetto Croce. Un post e un accostamento deliranti al quale ligi si affrettano a mettere il like 25 tra i suoi staffisti, nominati, nominandi e piccalunghi.
Poi si concede alle interviste, dice che non appoggerà mai un governo inciucista, che è giusto che governi chi ha vinto e cioè Lega e Cinquestelle ma lui, provocatoriamente ripete almeno tre volte che è pronto a votare il reddito di cittadinanza che costerebbe alle casse pubbliche 75 miliardi di euro l’anno, ben sapendo che pure Di Maio ha detto che per ora non se ne parla.
Insomma, a dispetto delle chiacchiere, neppure l’ombra di un pentimento di una riflessione di un’analisi seria:
“Sì, abbiamo perso 70 mila voti rispetto al 2013, io mi sento pienamente coinvolto”,
e basta, volta subito pagina, che non se ne parli più, lui ora è senatore. Meglio cancellare dimenticare rimuovere.
Cosa ho sbagliato? Perché quei 70 mila voti si sono persi per strada? Se ci fosse stata coscienza, consapevolezza, capacità di riflessione e di analisi, a dispetto del curriculum che ha pubblicato sempre ieri sulla sua bacheca Facebook, Luciano D’Alfonso non avrebbe detto che è pronto a continuare sulla sua vecchia strada fino all’ultimo giorno utile né che sta lavorando a un dossier sulle cose fatte in questi anni di governo per il passaggio delle consegne. Avrebbe detto probabilmente che quel tempo lo avrebbe impiegato per cambiare rotta, per correggere, per capire.
No, non lo farà. E’ pronto a governare anche la fase del traghettamento alle nuove elezioni che lui non vuole a nessun costo prima della scadenza naturale, tanto che gli esce spontaneo a fine conferenza stampa un riferimento, un lapsus froidiano, al “presidente Lolli”, subito corretto in un “vice presidente”. Deve rimanere lui fino al 2019, secondo le intenzioni di Dalfy, per avere il tempo di riorganizzare le truppe per le prossime elezioni, anche perché ha contratto tanti impegni, ha promesso tanti posti, incarichi, ha firmato così tante cambiali che onorarle tutte con l’aria che tira c’è da vincere l’oscar dell’imbonitore. Tutti, o quasi tutti i trombati di questa tornata elettorale, sono in lista di attesa per un posto alla Regione: tanti candidati e tanti portatori d’acqua, anche se alla fine, visti i risultati, hanno portato solo pochissime gocce. L’elenco è lungo: dal presidente della Provincia Antonio Di Marco che gli ha fatto da accompagnatore ufficiale per tutta la campagna elettorale, al parlamentare Toni Castricone, alla ormai ex sottosegretaria Federica Chiavaroli, a Gianluca Fusilli, e non finisce qui.
Blinda la poltrona di Lolli nel giorno in cui anche i Cinquestelle chiedono che bisogna tornare al voto e pure subito, ma non ci pensa per niente Dalfy. Senza contare che se soltanto volessero, le opposizioni, far cadere il governo regionale, basterebbe che si dimettessero, tutti insieme: le opposizioni, Leu, l’assessore Donato Di Matteo e Andrea Gerosolimo che da tempo meditano azioni di strappo. Ma alla fine, manca l’intesa e manca il coraggio. Anche se almeno per prendere la rincorsa, Di Matteo in questi giorni ha perso 16 chili: forse servirà.
No, non mollano, e il ragionamento che fanno nelle loro riunioni è consolatorio, auto-assolutorio: se il Pd ha perso così tanto in Abruzzo, fermandosi al 13 virgola qualcosa, non è tanto per colpa di Dalfy, delle candidature, della politica regionale e di un partito agli ordini del governatore, ma perché l’Abruzzo è perfettamente in linea con il sud, con la Campania, con la Puglia. Tutti allo stesso livello, dicono, è un trend, non facciamo eccezione.
Un bluff, l’ennesimo tentativo di cambiare le carte in tavola. Sì, l’Abruzzo almeno al Senato è terzultimo, prima di Campania di pochissimo (13,8) e della Sicilia (11,6). Ma né in Campania né in Sicilia era candidato il presidente di Regione, né in Campania né in Sicilia né in Puglia erano candidati presidente, coordinatore della maggioranza (Camillo D’Alessandro), un assessore (Dino Pepe), il capogruppo (Sandro Mariani), e via cantando. Tutti turbo-renziani, come se non bastasse.
Senza contare che in Campania la segretaria del partito si è dimessa, e lo stesso hanno fatto in Umbria, nelle Marche, in Friuli, a Nuoro e la Serracchiani a Roma. Qui manco per scherzo: la parola dimissioni non esiste. Haivoglia ad invocarle: ci hanno provato prima Michele Fina, collaboratore del ministro Andrea Orlando, e poi il sindaco Pd di Castellalto Vincenzo Di Marzo, vice segretario del partito a Teramo. Niente, Rapino non risponde, D’Alfonso neppure. Lui pensa alle prossime vacanze romane. Che di questo si tratta, altro che Abruzzo al governo.
ps: Anzi, Una vita in vacanza, “nessuno che dice se sbagli sei fuori. Sei fuori” (Lo Stato sociale, Sanremo 2018). Vale la pensa ascoltarla, questa canzone.